“La Repubblica popolare cinese è la prigione per giornalisti più grande del mondo e il suo regime conduce una campagna di repressione contro il giornalismo e il diritto all’informazione a livello globale:” è il giudizio impietoso di Reporters Sans Frontières (RSF) sullo stato della libertà di stampa in Cina. Un diritto riconosciuto dall’articolo 35 della costituzione cinese, ma fortemente ridimensionato poche righe sotto con il riferimento alla necessità limitarne l’esercizio per tutelare la “sovranità nazionale” e all’”interesse pubblico”. In Cina, ça va sans dire, anche la libertà di stampa assume “caratteristiche cinesi”.
Fin dalla fondazione della Repubblica popolare, nel 1949, il termine “libertà di stampa” (xinwen ziyou 新闻自由) è stato spesso attaccato e bollato come “una fantasia borghese dell’Occidente” e uno strumento per calunniare la Cina. Secondo China Media Project, l’espressione compare solo raramente sui media statali, dove è più frequentemente rimpiazzata dalla variante “libertà di espressione” (yanlun ziyou言论自由). Nel 2005 il People’s Daily, megafono del partito comunista, spiegava l’“essenza della libertà di stampa” attribuendole il triplice compito di “favorire lo sviluppo economico, la stabilità sociale e il miglioramento del tenore di vita delle persone.” I mezzi di informazione – concludeva il quotidiano – devono “fornire una forte garanzia ideologica e il sostegno dell’opinione pubblica alla grande causa della costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi.” A questa visione addomesticata di “libertà di espressione” il People’s Daily contrappone la “cosiddetta libertà di stampa” (suowei de xinwenziyou 所谓的新闻自由), termine che dalle proteste di piazza Tian’anmen in poi è stato utilizzato dalla propaganda governativa per svilire le rivendicazioni democratiche degli esponenti della Cina liberale.
L’arrivo di Xi Jinping alla guida del partito nel 2012 ha coinciso con una chiusura totale nei confronti di ideali e valori importati dall’esterno. La libertà di stampa non fa eccezione. Negli ultimi anni il termine xinwen ziyou, un tempo considerato “sensibile”, è diventato un vero e proprio tabù. Un comunicato interno pubblicato nel 2013 dal comitato centrale del partito – il famigerato “Documento 9” – ha rubricato “l’idea occidentale di giornalismo” tra le “sette correnti sovversive” insieme alla promozione della democrazia costituzionale, del valore universale dei diritti umani, della partecipazione alla vita sociale, del neo-liberalismo, del nichilismo storico, e della messa in discussione del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Secondo un recente rapporto di RSF, si tratta di un vero e proprio “grande balzo indietro del giornalismo in Cina”. L’organizzazione parigina evidenzia come per l’esercizio della professione sia ormai richiesto un training politico obbligatorio che comprende lo studio del “pensiero di Xi Jinping”, il contributo teorico del presidente inserito nella costituzione cinese. Con Xi torna, dunque, a prevalere l’ideologia archiviata dopo l’avvio delle riforme economiche anni ‘80. Con il risultato che la lealtà al Partito/Stato ha la meglio sulla deontologia professionale.
Chi oltrepassa il perimetro tracciato dalle autorità rischia grosso. “Il semplice atto di indagare su un argomento ‘sensibile’ o di pubblicare informazioni censurate può comportare anni di detenzione in carceri non igieniche, dove i maltrattamenti possono portare alla morte,” avverte il rapporto che a dicembre 2021 contava “almeno 127 giornalisti (professionisti e non) detenuti dal regime”.
La stretta non ha risparmiato nemmeno i reporter stranieri. Nel suo ultimo sondaggio, il Club dei corrispondenti esteri in Cina (FCCC) ha espresso preoccupazione per la “velocità vertiginosa con cui la libertà dei media sta diminuendo in Cina”. Degli oltre 100 giornalisti stranieri interpellati, il 99% ha affermato che le condizioni di lavoro non soddisfano gli standard internazionali. Quasi la metà degli intervistati ha lamentato carenze del personale a causa dei ritardi nell’approvazione dei visti. Serie limitazioni nell’esercizio – aggravate dalle misure anti-Covid – rendono sempre più difficoltoso raccontare il paese con scrupolosità. Soprattutto nelle aree più sensibili: l’88% degli intervistati che nel 2021 si è recato nella regione autonoma dello Xinjiang (dove si sospettano gravi abusi contro le minoranze etniche) ha affermato di essere stato controllato e seguito durante tutta la permanenza.
Un tempo esempio virtuoso, non fa più eccezione nemmeno Hong Kong, l’ex colonia britannica tornata nel 1997 alla Cina continentale con la promessa di ampia autonomia. Nonostante la mini costituzione locale riconosca la “libertà di parola, di stampa e di pubblicazione”, dal luglio 2020 una controversa Legge sulla sicurezza nazionale permette al governo di imbavagliare le voci scomode in nome della lotta contro il “terrorismo”, la “secessione”, la “sovversione” e la “collusione con forze straniere”. Nel 2021, due importanti testate giornalistiche indipendenti, l’Apple Daily e Stand News, sono state chiuse mentre numerosi media hanno cessato le attività adducendo rischi legali. In appena due anni Hong Kong ha smesso di essere considerato una finestra sulla Cina comunista. A luglio, durante la visita di Xi per le celebrazioni del 25° anniversario dell’handover, almeno dieci media internazionali sono stati esclusi dai principali eventi con la scusa del Covid.
Non stupisce quindi che la regione amministrativa speciale sia stata retrocessa nel ranking di RSF dedicato alla libertà di stampa: quest’anno Hong Kong si è piazzata al 148° posto su 180 paesi, tra le Filippine e la Turchia. Un calo verticale rispetto alla 80° posizione del 2021 anno, per quanto sempre meglio della Repubblica popolare, classificatasi 175esima.
L’unico esempio virtuoso nell’area sinofona resta Taiwan. Scalate cinque posizioni, in un anno l’isola democratica è arrivata 40esima. L’ex Formosa rientra tra i 40 paesi in cui l’ambiente giornalistico è da considerarsi ancora “soddisfacente”. Nonostante la performance apparentemente buona, il giudizio dell’Ong tuttavia non è pienamente positivo. Restano infatti da risolvere molti problemi, come la crescente “polarizzazione politica, la pubblicità non dichiarata, il sensazionalismo e la ricerca del profitto”. Distorsioni che, secondo RSF, impediscono ai cittadini di accedere a informazioni oggettive e ostacolano il lavoro dei giornalisti, già gravati da condizioni di lavoro definite “tossiche”: stipendi bassi e turni massacranti stanno allontanando i giovani dalla professione.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.