Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad appena venti minuti di cammino quanto piuttosto quello di vivere in un compound munito di “minimarket” aperto h24 con ogni genere di confort cinese: acqua minerale, sturalavandini e stuzzichini per la fame tossica al ritorno dai bagordi del sabato sera. Anche di notte la luce sempre accesa, solo più tenue, invogliava a entrare. E allora dovevi intrufolarti silenziosamente per non svegliare Li, il giovane negoziante steso a terra tra gli scaffali dei noodles liofilizzati e quello dei biscotti, mentre la suocera gestiva la cassa e la moglie dormiva abbracciata al figlio di pochi mesi in una stanza attigua: la loro casa. Poco più di un letto, una tv e un fornello su cui ribollivano costantemente pentoloni fumanti.
Incuranti delle condizioni di vita spartane, dicevano di voler restare lì fino a quando il bambino non avesse raggiunto l’età scolare: poi i costi dell’istruzione sarebbero stati insostenibili per una famiglia di mingong (migranti) come loro.
A complicare la vita di Li e degli oltre 260 milioni di lavoratori itineranti cinesi è l’hukou, il sistema di registrazione famigliare che classifica ogni individuo, fin dalla nascita, sulla base di una serie di parametri – tra cui provenienza (rurale o urbana), indirizzo, professione, etnia e religione – ancorandone l’accesso ai servizi essenziali al luogo d’origine. Ed è ereditario. Vuol dire che per poter iscrivere il figlio ad una scuola pubblica Li sarà costretto a tornare nel villaggio del Sichuan da cui proviene, o in alternativa a pagare la retta per un mediocre istituto privato di Pechino.
Introdotto all’epoca degli Stati Combattenti (III sec. a.C.), inizialmente il sistema serviva a rubricare famiglie e clan per facilitare l’imposizione fiscale, la coscrizione e il mantenimento della stabilità sociale. E’ soltanto nel 1958 che l’hukou “diventa specificatamente uno strumento per controllare lo spostamento delle persone tra le città e le campagne”, Ci spiega Wang Fei-ling professore della University of Pennsylvania nonché autore del primo studio completo sul tema (Organizing Through Division and Exclusion: China’s Hukou System, Stanford University Press, 2005), “la dicotomia città-campagna è sempre esistita ma ha assunto una certa rigidità con la fondazione della Repubblica popolare (1949)”. Da quel momento in poi l’hukou è diventato uno strumento al servizio dell’economia pianificata nella distribuzione delle risorse e nella protezione delle attività economiche ad alta intensità di capitale.
Grazie all’apartheid, i contadini sarebbero dovuti restare nei campi per assicurare costanti approvvigionamenti alimentari agli operai impiegati nelle fabbriche urbane; manodopera a basso costo ma ricompensata con la cosiddetta “ciotola di ferro”, un pacchetto di benefit (istruzione gratuita, assistenza sanitaria, pensioni, una casa) assicurato dall’impiego statale. Così è stato durante il Grande balzo in avanti (’58-’62), quando le campagne – collettivizzate – continuarono a nutrire le città in base a stime sulla produzione gonfiate. Circa 30 milioni di cinesi persero la vita a causa della carestia, di cui il 95% in possesso di un hukou rurale.
Il sistema ha cominciato ad evidenziare le prime profonde crepe in concomitanza con gli esperimenti capitalistici anni ’80. La necessità di sostenere l’incessante richiesta di forza lavoro nel settore delle costruzioni e in quello industriale spinse milioni di persone a fluttuare dalle campagne alle città alla ricerca di migliori opportunità. Così, nel 2003, Pechino ha sospeso la pratica di sfratto forzato contro i mingong non regolarmente registrati, permettendo loro di lavorare legalmente nelle città ma continuando a privarli del welfare assicurato ai loro concittadini urbani. Risultato: se da una parte la migrazione giovanile dalle zone rurali alle città ha ridotto il tasso di disoccupazione nelle campagne permettendo ai lavoratori di accumulare capitale da reinvestire nei luoghi d’origine, dall’altra, le ripercussioni discriminatorie dell’hukou hanno causato fratture sociali e distorsioni sistemiche.
Mentre i migranti costruivano il “miracolo cinese” assemblando smartphone, tirando su palazzi o smistando rifiuti, l’attuale classe media accumulava benessere grazie al processo di privatizzazione del mercato immobiliare anni ’90, quando le aziende di Stato cominciarono a svendere ai propri dipendenti urbani le abitazioni in cui vivevano in affitto. Proprio il mattone – secondo un recente rapporto dell’Economist Intelligence Unit – è il principale catalizzatore dell’ineguaglianza sociale che vede la Cina posizionarsi a quota 3 su una scala in cui l’1 indica una situazione di pieno equilibrio nella distribuzione degli asset (Global Wealth Report). Lo stipendio medio di un mingong (2.290 yuan) continua ad essere nettamente inferiore rispetto a quello dei lavoratori urbani (3.987 yuan), con un tasso di risparmio del 50% (rispetto al 30% dei cittadini in senso stretto) motivato dalla necessità di far fronte di tasca propria alle spese per tutti quei servizi di base da cui gli inurbati sono esclusi. Un trend che va contro il nuovo paradigma di crescita trainato dai consumi interni con cui Pechino vuole sostituire il vecchio modello “export/investment-driven” non più funzionale alla luce delle nuove dinamiche globali. In questo futuro all’insegna di una crescita sostenibile saranno le città di seconda, terza e quarta fascia a diventare il centro nevralgico del Paese. Non più le megalopoli ipertrofiche esplose negli ultimi anni.
Solo nel 2011 la popolazione urbana cinese ha superato quella rurale, un processo che la leadership comunista punta ad accelerare arrivando a rilocalizzare il 60% degli abitanti (compresi 100 milioni di mingong) nelle città entro il 2020. Gli esperti stimano che una spinta urbanizzatrice dell’1% l’anno regalerebbe tassi di crescita attorno all’8% nel prossimo ventennio, mentre una forza lavoro destinata a mansioni agricole di base nelle campagne – dove gli appezzamenti sono generalmente molto piccoli e la terra non può essere assegnata secondo meccanismi di mercato né convertita ad altri usi – sottrae produttività alla Nazione. D’altronde, proprio la prospettiva di perdere il controllo sul principale asset a propria disposizione, la terra, in cambio di un futuro incerto lontano da casa, continua a scoraggiare la popolazione rurale dal lasciare le campagne – dove la sovraoccupazione si aggira ancora attorno al 6,3%.
La coincidenza temporale tra la ripresa del dibattito sull’hukou e la formulazione del Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) – che ha per missione il raggiungimento di una “società moderatamente prospera” – è tutt’altro che casuale. Tre anni fa, il Consiglio di Stato ha introdotto una roadmap per l’istituzione di un sistema di registrazione unificato, sia per i cittadini rurali sia per quelli urbani, potenzialmente in grado di assicurare a tutti lo stesso accesso ai servizi sociali e aumentare il potere di spesa dei mingong. Ciò vuol dire che la distinzione tra hukou rurale e cittadino si estinguerà a favore di una serie di criteri di accesso generici in base alla località di arrivo: lavoro e una residenza stabili, il pagamento dei contributi per l’assicurazione sociale e il tempo che una persona ha trascorso nella città in questione. Gli spostamenti verranno incoraggiati verso le piccole città laddove i centri con popolazione superiore ai 5 milioni (e servizi migliori) continueranno ad alzare nuove barriere. E’ un sistema che lascia ampia discrezionalità ai governi locali, liberi di allentare o inasprire i criteri di insediamento in accordo alla disponibilità delle risorse locali.
“E’ dagli anni ’90 che si cerca di ammorbidire il sistema ma il controllo viene ancora largamente esercitato”, spiega Wang alludendo a una serie di riforme lanciate a partire dal 1997: dall’hukou “a punti” di Shanghai e Guangzhou a varie forme sperimentali di commercializzazione. Ma, secondo l’esperto, nessuna riforma andrà mai a segno in assenza di una revisione del regime dei diritti di proprietà. Come promesso nel nuovo piano quinquennale, è necessario che sia il mercato a governare l’allocazione delle risorse e di conseguenza la direzione intrapresa dai flussi migratori. “Le grandi città oggi sono tali perché il governo ha deciso che lo diventassero attraverso politiche mirate”, spiega Wang, che evidenzia un altro inaspettato ostacolo alla liberalizzazione del sistema: nessun cittadino urbano “di prima classe” muore dalla voglia di dividere i propri privilegi con un’umanità considerata inferiore e tradizionalmente vilipesa.
Quanto avverrà in futuro sarà probabilmente un gioco di “cosmesi”, in cui nuovi ritocchi non cambieranno la sostanza. E non solo per non scontentare l’elite cittadina. “Il governo cinese vuole rilassare il sistema per ottenere una buona crescita economica, ma allo stesso tempo ne vuole conservare le funzionalità politiche di controllo sociale” attive fin dall’epoca imperiale, conclude Wang. Da quando alla fine degli anni ’80 il database nazionale degli hukou è stato digitalizzato, il ministero della Sicurezza pubblica, i suoi uffici a livello locale e le stazioni di polizia – che lo amministrano – ne hanno sfruttato le potenzialità occulte per mantenere il controllo sugli “elementi target” (zhongdian renkou): criminali, dissidenti fino ai “terroristi” che si annidano nella regione musulmana dello Xinjiang. Per lo studioso, “il perseguimento dell’unità politica” è ciò che terrà veramente in vita l’hukou.
Stando alla stampa statale, grazie alla costante ricerca di nuove soluzioni, negli ultimi sei anni il numero dei migranti in arrivo nelle città ha mantenuto una traiettoria discendente dal +3,4% del 2011 al +0,3% del 2016. Ma più che la riforma dell’hukou, pare siano le nuove contingenze economiche (a partire dalla saturazione del settore impiegatizio nelle metropoli) a dettare un ritorno alle piccole e medie realtà urbane. Insomma, il mercato.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.