L’export cinese potrebbe non volare più come prima

In Economia, Politica e Società by Redazione

La tendenza dell’export cinese è legata a fattori internazionali tanto quanto a politiche interne a piani di investimento nazionali che contribuiscono a contrarre il settore manifatturiero, nonché al tessuto sociale cinese stesso

Dal 1980 al 2010, il rapporto dell’import sul PIL cinese è cresciuto dal 10% al 27%. Contestualmente, la bilancia dei pagamenti correnti – funzionale a misurare la percentuale di export su import di un Paese e, in ultima istanza, se un Paese è quindi debitore o creditore – è passata da un deficit dal 4% a un surplus del 10%. 

Fonte: Banca Mondiale.

Ci sono plurimi fattori in grado di giustificare questa crescita. In primo luogo, la liberalizzazione del mercato cinese avvenuta tramite l’eliminazione di barriere tariffarie e non tariffarie, che culminò con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. L’accesso all’ OMC ha invero permesso al mercato cinese di incrementare la competitività e quindi il consumo interno – che la Cina necessita di espandere al fine della crescita – e di difficile attuazione stante la tendenza al risparmio della popolazione. Pechino ha altresì usufruito degli “Special and Differentiated Treatment” riservati ai Paesi in via di sviluppo: questa clausola prevede infatti che suddetti Paesi possano beneficiare di una serie di trattamenti preferenziali volti a stimolarne il commercio e la competitività. Pechino ha inoltre attuato una strategia di promozione del commercio intenzionalmente indirizzata al surplus commerciale, esplicatasi in una chiusura tout court all’ingresso di capitali esteri e all’acquisto di valuta estera da parte della banca centrale volta al mantenimento di un tasso di cambio competitivo. Quest’ultima strategia si è tradotta in un accumulo di 4 triliardi di USD di valuta estera nel 2014. 

Fonte: World Economic Forum e Statista.

Suddette strategie hanno provato essere efficaci: la percentuale dell’output manifatturiero cinese è cresciuta dall’1% nel 1985 al 12% – se non 50% in alcuni settori – nel 2007. 

Recentemente, l’export cinese è stato altresì premiato da oculati investimenti strategici in settori quali i veicoli elettrici, i pannelli solari e i semiconduttori. Nell’ambito di piattaforme internazionali quali l’OMC, la Cina ha progressivamente aumentato il proprio peso economico e giuridico, anche avvalendosi del progressivo disengagement statunitense. Con il piano strategico nazionale Made in China 2025, risalente al 2015, Xi Jinping ha infine inteso dare un’impronta evolutiva caratterizzata da un modello economico più avanzato e mirato a creare convergenza tra settore high tech, industriale e dei microchip con quello della difesa a un Paese storicamente contraddistinto da un’economia manifatturiera a basso valore aggiunto.

Al 2023, la Cina contava per un terzo sul valore manifatturiero aggiunto globale e un quinto sull’ export manifatturieri globali. In altre parole, al 2022 il 60% dell’output manifatturiero cinese veniva riversato sui mercati mondiali, considerando che i consumi interni cinesi rappresentavano unicamente il 13% dei consumi mondiali. 

Nel 2023 si è tuttavia registrata la prima flessione sull’export cinese, mentre nel corso del 2024 il numero delle aziende con i conti in rosso è aumentato del 44%, diventando il 30% del totale: questo fenomeno riguarda principalmente i settori dei veicoli elettrici, dei pannelli solari e dei microchip. La flessione dell’export cinese è dovuta a fattori internazionali tanto quanto a politiche interne a piani di investimento nazionali che contribuiscono a contrarre il settore manifatturiero, nonché al tessuto sociale cinese stesso. 

Un’influenza notevole sulla capacità di assorbimento della sovra-produzione cinese è data infatti dalle conseguenze della Politica del Figlio Unico – abolita solo nel 2015 – che ha incoraggiato un’elevata tendenza al risparmio, ridotto il reddito familiare, nonché ristretto la domanda domestica. Unitamente ai salari limitati, le politiche demografiche cinesi hanno portato a un crollo del reddito familiare medio sul PIL nazionale dal 62% nel 1983 al 44% ad oggi. La domanda domestica insufficiente – e quindi il marcato assorbimento dell’output manifatturiero su territorio nazionale – è stata storicamente aggravata da un eccesso di capacità nella forza lavoro – 100 milioni di lavoratori all’agosto 2024 – e dai continui investimenti sia statali sia internazionali nel settore manifatturiero, incentivati dai ritorni molto elevati. 

La risposta cinese è stata quindi il dirottamento della maggior parte dei prodotti verso i mercati esteri, in particolare quello americano. La conseguenza di questa dinamica è la corrispondenza tra surplus commerciale cinese e deficit statunitense: tra il 2000 e il 2021, le esportazioni americane sono crollate dal 25% al 16%. La risposta di Washington, esplicatasi nell’ annosa guerra tariffaria, ha portato al crollo degli import cinesi nel mercato americano del 12.7% nel 2024. Inoltre, al fine di evitare i dazi statunitensi, plurime aziende hanno stabilito di rilocalizzarsi in Vietnam e in Messico. Oltre che perdere una fetta di mercato statunitense, Pechino deve altresì affrontare il crollo nel settore industriale dovuto alla rilocalizzazione degli impianti produttivi.

Il crollo dell’output industriale è anche parzialmente dovuto agli ingenti investimenti statali nel settore dei servizi e dell’immobiliare che sempre più evidentemente denotano il passaggio da un’economia manifatturiera a un’economia improntata sui servizi. 

Contribuisce anche il più generale aumento dei costi di lavoro, materie prime e trasporti che, portando all’innalzamento dei prezzi, incentivano il reshoring delle aziende. Le considerazioni sul reshoring sono altresì avvenuto a seguito dalle politiche di “Zero Covid”, che hanno causato diminuzione della produzione industriale del 2.9%, crollo dell’11.1% delle vendite al dettaglio, e rallentamento delle esportazioni del 3.9%. 

Un ultimo fattore che contribuisce alla diminuzione dell’output manifatturiero è dato dall’invecchiamento generale della popolazione e dalla contrazione delle nascite – da 234 milioni di nascite annuali nel periodo 1962-1990 a soli 9 milioni al 2024 – nonché’ dall’età mediana sempre più elevata dei lavoratori immigrati, che costituiscono l’80% della forza lavoro cinese. Infine, i crescentemente elevati livelli di scolarizzazione sempre maggiormente dirottano la forza lavoro locale verso il settore dei servizi. 

L’export cinese appare quindi rallentato internazionalmente – influenzato dalle politiche commerciali statunitensi e dal reshoring di numerose aziende – tanto quanto da una serie di fattori interni – politiche demografiche, invecchiamento della popolazione, elevata scolarizzazione -. Nonostante il declino del settore manifatturiero e quindi dell’export sia un fenomeno in atto, la rapidità del processo sarà comunque attutita dalla dimensione del mercato interno, nonché dall’ecosistema industriale sfaccettato, peraltro arricchito dagli investimenti in intelligenza artificiale e robotica.

A comprova di ciò, ad agosto 2024 l’export cinese è aumentato del’8,7% rispetto all’anno precedente raggiungendo i 308,65 miliardi di dollari, rispetto all’aumento del 7% di luglio. Le importazioni sono invece aumentate solo dello 0,5% rispetto all’anno precedente ad agosto, rispetto alla crescita del 7,2% osservata a luglio. I dati segnalano un settore ancora altamente
competitivo sulle esportazioni, mentre la domanda interna debole influenza negativamente le importazioni: il governo cinese ha infatti previsto una crescita annuale del 5% per il 2024, in quanto la crescita è ancora fortemente influenzata dalla domanda esterna.

L’export è stato inoltre finora premiato dalle tempistiche dei produttori cinesi, che hanno anticipato le consegne in territorio europeo prima che le tariffe entrassero in vigore, e dal fatto che i dazi americani non sono ancora entrati interamente in vigore.

Di Francesca Leva