“Dove le ragioni finiscono” è il titolo dell’ultimo libro tradotto in italiano e pubblicato da NN Editore della scrittrice cinese naturalizzata americana Yiyun Li. Nata a Pechino nel 1972, nel 1996 dopo la laurea in Medicina si trasferisce in America per specializzarsi in Immunologia all’Università di Iowa City. È proprio in questa città, eletta nel 2008 Città della letteratura UNESCO, che dopo aver completato gli studi scientifici decide di seguire la passione per la scrittura, iscrivendosi al più prestigioso Master di scrittura creativa degli Stati Uniti, conosciuto come Iowa Writers’ Workshop. Nel 2010 il New Yorker l’ha nominata tra i migliori 20 narratori americani Under 40 e lo stesso anno le è stato conferito il MacArthur Fellowship che premia i migliori creativi in vari ambiti.
Abbandonare la carriera medica più “sicura” per dedicarsi alla scrittura è stata una scelta coraggiosa, dettata dal cuore. Pur non avendo mai messo in discussione nel corso degli anni gli studi scientifici verso i quali era stata indirizzata dai genitori (fisico nucleare il padre, insegnante la madre), il suo istintivo desiderio di comprendere a fondo le persone e l’innata passione per la letteratura hanno trovato nella scrittura il mezzo d’espressione perfetto. Perché prima che scrittrice, Yiyun Li è ed è stata un’avida lettrice. Nel 1991, durante l’anno di servizio obbligatorio nell’Esercito Popolare di Liberazione, fu trovata a leggere Hemingway di nascosto e le fu sequestrato il libro. A distanza di anni, la sua raccolta di racconti d’esordio “Mille anni di preghiere” nel 2005 ha vinto, tra gli altri, il Pen/Hemingway Award, assegnato ogni anno alla miglior opera prima di narrativa di uno scrittore statunitense.
L’amore per la letteratura appare chiaramente nei frequenti riferimenti all’interno delle sue opere a scrittori e scrittrici che hanno avuto una particolare influenza sulla sua vita personale e professionale. In particolare in “Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua” (NN Editore, 2018), una sorta di diario in cui i capitoli non seguono una logica temporale, scritto negli anni di profonda depressione che hanno seguito due tentativi di suicidio e i conseguenti ricoveri ospedalieri. Dallo scrittore irlandese William Trevor, a cui deve il suo essere scrittrice e che considera come un mentore, a Katherine Mansfield, da cui prende in prestito il titolo del libro, passando per Turgenev e Kirkegaard: dalle pagine intense ma delicate di questo libro trapela il dolore e l’impossibilità di dare qualsiasi spiegazione logica e razionale a un atto incomprensibile e impossibile da giudicare dall’esterno, ma anche il potere salvifico della letteratura, capace se non di fornire risposte perlomeno di assicurare un tenace appiglio.
Un argomento particolare che affronta proprio in questo libro e che ritorna in altri momenti è quello della lingua. Yiyun Li non ha mai scritto in cinese e una volta arrivata negli Stati Uniti ha deciso di abbandonare la lingua madre in favore di una lingua seconda, l’inglese, scelta questa che continua a destare particolare curiosità nei lettori e non solo, costituendo anche motivo di critiche.
“Sono abituata a essere considerata da alcuni cinesi – sia in Occidente che in Cina – una traditrice culturale. Perché’ non puoi scrivere in cinese? chiede la gente; se non scrivi in cinese, che diritto hai di scrivere parlando del nostro Paese?”
Tuttavia, come ha spesso affermato nelle interviste rilasciate nel corso degli anni, questa scelta è stata una redenzione per lei che non si è mai sentita libera di esprimere ciò che aveva dentro nella sua lingua madre. Sin da quando annotava i suoi pensieri sul diario da ragazzina, infatti, consapevole del fatto che non avrebbe potuto sottrarsi all’esame attento della madre, era solita praticare una sorta di autocensura. Conseguenza questa anche del periodo in cui è nata, quello della Rivoluzione Culturale, che aveva insegnato ai genitori che era preferibile non mettere per iscritto liberamente idee e pensieri e che certe cose potevano essere dette solo all’interno delle mura di casa.
La Cina, tuttavia, è tutt’altro che assente nelle opere di Yiyun Li. I due romanzi “I girovaghi” (Einaudi, 2010) e “Più gentile della solitudine” (Einaudi, 2015) traggono ispirazione da eventi realmente accaduti nel suo paese natale. Il primo è ambientato nel 1979, pochi anni dopo la fine della Rivoluzione Culturale, nel contesto del movimento del «muro della democrazia», nella fittizia cittadina industriale di Fiume Fangoso. Si apre con l’esecuzione della giovane Shan, ex Guardia Rossa, nel giorno dell’equinozio di primavera per poi far entrare in scena tutta una serie di personaggi, riportando attraverso scene molto forti alla Cina di quegli anni turbolenti.
Il secondo trae spunto da un caso di avvelenamento da tallio, una sostanza altamente tossica, avvenuto nei primi anni ’90. La tragedia che colpì una studentessa di una delle più prestigiose università cinesi all’epoca e che le provocò lesioni permanenti non ebbe mai un colpevole, sebbene la principale sospettata fosse una compagna di università, proveniente da una famiglia politicamente influente. Nel romanzo, che si svolge a metà fra la Cina del 1989, poco dopo i tragici eventi di Piazza Tian’anmen, e l’America dei giorni nostri, tre amici ormai adulti e divisi si trovano a dover fare i conti con il passato, perché è un’illusione pensare di ricominciare semplicemente cancellando quello che è stato.
I protagonisti delle due raccolte “Mille anni di preghiere” (Einaudi, 2007) e “Ragazzo d’oro, ragazza di smeraldo” (NN Editore, 2019) si muovono a metà tra Cina e America, tra tradizione e contemporaneità. Seppure lei stessa abbia più volte affermato di non ritenersi una scrittrice autobiografica, anche nei racconti è possibile rintracciare elementi riconducibili alla sua biografia. Come in “Gentilezza” che ha per protagonista una donna di mezza età che ricorda il periodo di arruolamento nell’esercito all’età di 18 anni, o nelle parole della figlia di Mr. Shi in “Mille anni di preghiere”, trasferitasi in America e da poco divorziata dal marito come lei di origine cinese, da cui emerge l’impossibilità di comunicare nella propria lingua madre.
“Baba, se sei cresciuta con una lingua che non hai mai usato per esprimere i tuoi sentimenti, è più facile imparare un’altra lingua e parlare di più in quella. Ti trasforma in un’altra persona.”
I racconti di Yiyun Li appaiono come una serie di istantanee che, attraverso un linguaggio essenziale e delicato, catturano una quotidianità difficile, il più delle volte senza lieto fine. I protagonisti sono persone comuni, ordinarie, spesso solitarie, che la scrittrice riesce a delineare in modo molto preciso. In un alternarsi di passato e presente, di tradizione e modernità, i rapporti famigliari, il destino, l’amicizia e l’amore compaiono nelle loro innumerevoli sfumature.
Nella prima raccolta troviamo ad esempio un bambino dai lineamenti molto simili a quelli del Presidente Mao, scelto come suo sosia ufficiale, sebbene sia figlio di un controrivoluzionario giustiziato; una ragazzina messa di fronte alla dura verità sulla sua famiglia che è decisa ad andarsene; uno “scapolo di diamante” che torna a Pechino “con un passaporto americano nuovo di zecca e un vecchio cruccio cinese” e che scopre la nuova fissa della madre, non più la ricerca di una sposa per il figlio ma la fede cattolica. Nella seconda raccolta troviamo invece una coppia di genitori che ha da poco perso l’unica figlia in un’incidente stradale e decide di tornare in una regione remota del sud della Cina per trovare una donna che sia disposta a fare da madre surrogata; una madre che vuole combinare il matrimonio tra il figlio, un uomo di 44 anni tornato stabilmente in Cina dopo aver vissuto parecchi anni in America, e una sua ex studentessa a cui lei è particolarmente legata.
Quello che appare chiaro leggendo le storie di Yiyun Li, citando le parole della traduttrice Eva Kampmann, è che i suoi racconti “sono scritti in inglese ma hanno l’anima cinese” e quindi la difficoltà sta nel tradurre dall’inglese tutta una serie di dinamiche e valori fortemente legati invece alla cultura cinese.
L’ultima sua opera pubblicata in Italia da NN Editore è “Dove le ragioni finiscono”, una sorta di autofiction in cui Yiyun Li dà vita a un lungo dialogo immaginario con il figlio maggiore che si è tolto la vita nel 2017. Iniziato nelle settimane successive alla tragica scomparsa, in un momento di profonda crisi e depressione, con il semplice intento di distrarre la mente e mettere su carta ricordi e dettagli di vita quotidiana condivisi con il figlio, si è trasformato in pochi mesi in un dialogo lungo 150 pagine. Il disperato bisogno di non lasciar scivolare via momenti preziosi, di ancorarli in qualche modo al presente e mantenere vivo il delicato rapporto tra una madre e il proprio figlio. Un rituale quotidiano che, come la scrittrice stessa ha rivelato in un’intervista, poteva ipoteticamente continuare all’infinito, ma che lei stessa decide di interrompere con il capitolo sedici, come gli anni del figlio al momento della morte. In uno spazio e tempo indefiniti, Nikolai e la madre si scambiano idee e punti di vista spesso divergenti sulla vita, la morte e la forte passione comune per la lingua e il potere magico di aggettivi, avverbi e sostantivi.
di Linda Zuccolotto
Laureata magistrale in Language and Management to China all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ho studiato per un periodo a Pechino con una borsa di studio. Su Instagram condivido la mia passione per la Cina sulla pagina @hanzilovers.