“Il sogno cinese” (edito da Feltrinelli nella traduzione di Katia Bagnoli) è l’ultima opera di Ma Jian, scrittore cinese nato nel 1953 a Qingdao (lo stesso anno del presidente Xi Jinping) e che vive a Londra ormai da molti anni. Costretto all’esilio e censurato a causa delle critiche esplicite nei confronti del governo di Pechino, l’unico legame con la sua patria rimane la lingua, con la quale riesce ad esprimere al meglio le contraddizioni del Paese in cui spera che un giorno possano essere pubblicate le sue opere. I suoi romanzi, infatti, nascono in cinese e vengono poi tradotti in inglese dalla moglie e traduttrice, Flora Drew.
Nell’impossibilità di varcare i confini nazionali, Ma Jian vede il suo lavoro di scrittore come una missione, ossia quella di raccontare la verità, di portare a galla e conservare la memoria di quei fatti scomodi che la Cina, nella sua ambiziosa ascesa politica ed economica, vuole far cadere nel dimenticatoio. Questa sua condizione di esiliato gli permette però di criticare senza mezzi termini il governo cinese, cosa impossibile per i colleghi costretti a scendere a compromessi e ad accettare la pesante censura interna.
Volutamente provocatorio e satirico, Ma Jian è solito scegliere questioni spinose come temi centrali delle sue opere: il Tibet in “Tira fuori la lingua” (1987), che gli causò la messa al bando delle sue opere perché giudicato “spiritualmente inquinante”, i tragici eventi di Piazza Tian’anmen in “Pechino è in coma” (2008) e gli orrori compiuti in nome della politica del figlio unico in “La via oscura” (2015). Non c’è da stupirsi, quindi, che l’argomento di questo suo ultimo romanzo sia una critica tutt’altro che dissimulata alle ideologie dell’attuale presidente Xi Jinping, in un alternarsi di realtà e finzione.
La realtà a cui fa riferimento nel breve romanzo è spiegata dall’autore stesso nella prefazione, in cui ricorda la visita di Xi Jinping a fine 2012, qualche mese prima della sua nomina a presidente della Repubblica Popolare Cinese, alla mostra “La strada per il ringiovanimento” all’interno del Museo nazionale della Cina. La critica, esplicitata poi più volte tra le righe del romanzo, è innanzitutto all’opera di cancellazione dalla memoria collettiva diretta dal governo cinese di alcuni fatti storici rilevanti, come, nello specifico in questo libro, al decennio di violenze e terrore che ha caratterizzato la Rivoluzione culturale. Per Ma Jian quindi “il Sogno cinese è un’altra bella bugia costruita dallo stato per rimuovere dalla mente delle persone i brutti ricordi, sostituendoli con pensieri felici”. La dedica a George Orwell “che aveva previsto tutto” e la scelta della copertina del libro, fatta realizzare appositamente dall’artista dissidente Ai Weiwei, inviso al governo cinese tanto da essere stato incarcerato in passato, non lasciano dubbi, se ancora ce ne fossero, sul punto di vista di Ma Jian.
Il protagonista del romanzo è Ma Daode, vicepresidente dell’associazione scrittori della cittadina di Ziyang, fervente sostenitore del Sogno cinese del presidente Xi Jinping, che è suo compito promuovere attraverso l’Agenzia del Sogno Cinese di cui è direttore, dal suo Studio Rotondo, a detta sua non meno imponente del ben più celebre Studio Ovale.
“Il nostro nuovo presidente, Xi Jinping, ha esposto la sua visione del futuro. Ha inventato il Sogno cinese di ringiovanimento nazionale. Non il sogno egoista e individualista inseguito dalle nazioni occidentali, bensì un sogno del popolo, un sogno di tutto il paese, dove tutti si uniscono trasformandosi in un’unica forza invincibile. Il nostro lavoro, in questa Agenzia, è assicurarci che il Sogno cinese entri nella mente di ogni abitante della città-prefettura di Ziyang. Mi pare chiaro che il Sogno cinese comunitario è quello di impregnare completamente il cervello, bisogna innanzitutto spazzare via ogni ricordo e ogni sogno personale e privato, e io, Ma Daode, mi offro come primo volontario.”
Arguta la scelta del nome del protagonista, Daode (道德dàodé) che in cinese significa “etica, morale, moralità”, e che suona come un ossimoro non appena il personaggio viene tratteggiato come un funzionario corrotto che si riempie la bocca di frasi pregne di retorica ma di rado invita ospiti a casa, nella paura che vedano la mole di regali che riceve in cambio di favori politici, inguaribile traditore che si districa a fatica tra le sue 12 principali amanti che chiama le “Dodici Forcine di Jingling”, come le fanciulle del romanzo classico “Il sogno della camera rossa”.
Lo stesso protagonista è l’orgoglioso ideatore dell’impianto neuronale chiamato Dispositivo del Sogno cinese, una sorta di minuscolo microchip che una volta realizzato permetterà innanzitutto a lui stesso di liberarsi degli incubi ricorrenti che lo tormentano in qualsiasi momento della giornata, e inoltre al Partito di controllare i pensieri della gente e omologare i sogni di tutti.
Il problema è che nell’attesa che il prototipo del dispositivo venga realizzato, più si sforza di dimenticare il suo passato, più questo si ripresenta con sempre maggiore intensità: i frequenti flashback, segnalati nel libro dal font corsivo, riportano Ma Daode agli anni della Rivoluzione Culturale, alle violenze che lui stesso ha compiuto in nome del presidente Mao, alle lotte sanguinose tra fazioni rivali di Guardie Rosse, ma soprattutto al dolore causato alla sua famiglia.
“Se il mio passato continua a fare irruzione in questo modo cadrò a pezzi.”
I ricordi non gli danno tregua nemmeno nel momento cruciale in cui deve pronunciare un discorso per convincere gli abitanti di un villaggio vicino ad arrendersi alle demolizioni forzate per la costruzione di un Parco industriale tanto che finisce per straparlare e confondere le parole del presidente Mao con quelle di Xi Jinping. Persino l’uniforme verde e i bracciali rossi delle donne con cui se la spassa al nightclub Guardie Rosse gli rievocano dolorosi momenti.
Conducendo il suo protagonista (e di conseguenza anche il lettore) in uno stato di confusione fra l’onirico e il reale che raggiunge il parossismo, l’esasperazione, Ma Jian stigmatizza in toto l’operato del governo cinese. Il personaggio di Ma Daode è infatti per lo scrittore l’emblema di un apparato politico ossessionato dal controllo che vuole restituire al Paese un futuro glorioso senza però dover fare i conti con gli eventi dolorosi del passato.
di Linda Zuccolotto
*Laureata magistrale in Language and Management to China all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ho studiato per un periodo a Pechino con una borsa di studio. Su Instagram condivido la mia passione per la Cina sulla pagina @hanzilovers.