Il saggio Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina (Nero Edizioni, 2023) propone uno sguardo specificatamente cinese sul Covid-19, partendo dal presupposto che il virus non è causato da elementi insiti nel sistema politico della Repubblica popolare, bensì da un modello economico finalizzato all’accumulazione infinita. Il collettivo Chuang 闯 raccoglie mesi di reportage sul campo e interviste in una cronaca puntuale delle prime fasi dell’epidemia a Wuhan, tra i provvedimenti adottati dal governo e le pratiche mutualistiche della popolazione. E analizza anche come la crisi sia funzionale alla costruzione di nuovi modelli di repressione.
Con “contagio” si intende la trasmissione di una malattia infettiva, sia direttamente che mediante agenti trasmettitori. Ma se ne potrebbe parlare anche in relazione alla diffusione e l’influsso di comportamenti e atteggiamenti nella società. La pandemia di Covid-19 ha evidenziato come il contagio in termini microbiologici e la crisi che ne deriva siano capaci di generare una veloce propagazione (un contagio, per l’appunto) di misure e norme sociali tra la popolazione.
Al di là della retorica trumpiana del “virus cinese”, alla Repubblica popolare è stato riconosciuto il merito di aver risposto prontamente alla diffusione del Covid. E ai suoi abitanti, la capacità di mobilitarsi secondo le direttive emanate dall’alto. Ma i primi sviluppi del nuovo coronavirus in Cina, dal rilevamento dei primi casi nell’Ospedale Centrale di Wuhan, capoluogo dello Hubei, alla chiusura dell’intera città e alle misure prese anche nel resto del paese, riportano una realtà diversa.
Più che far parte di un blocco monolitico che ha seguito le direttive del governo, gli abitanti della città sono stati costretti a strategie clandestine pur di sopravvivere alla crisi: gruppi di consegna di mascherine e associazioni che provvedevano alla raccolta e allo smistamento di cibo, ma anche gruppi di genitori che su WeChat si scambiavano le informazioni. La cronaca minuziosa di Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina, tradotto da Enrico Gullo per Nero Edizioni (2023), conduce il lettore nelle comprensione delle dinamiche di contagio e dell’emergere di queste pratiche mutualistiche, grazie a lunghi reportage sul campo e a preziose interviste.
Un lavoro che ben rispetta la visione politica Chuang 闯, collettivo comunista di attivisti che risiedono dentro e fuori la Repubblica popolare. Negli scritti sul blog e nelle riviste online, gli autori analizzano lo sviluppo del capitalismo dentro i confini cinesi e le sue conseguenze sociali. Il carattere 闯 chuang, che ritrae un cavallo che sfonda un cancello, raffigura la loro idea di critica sociale: nel sito lo descrivono come “il movimento improvviso quando il cancello viene sfondato e al di là di esso emergono le possibilità per un nuovo mondo.”
Cosa verrà dopo? Se gran parte di questo saggio si sofferma sull’analisi delle storture del presente, o di un passato recente, c’è spazio anche per una riflessione sui possibili scenari futuri di sperimentazione capitalistica. Perché la pandemia non può prescindere dall’attuale sistema economico. Come scrive l’accademico e attivista David Ranney nell’incipit dell’introduzione, “non c’è niente di esclusivamente cinese nella comparsa e nella diffusione di questo virus”. Il Covid-19 non è altro che l’ultimo caso di un virus mortale causato da un modello economico finalizzato all’accumulazione infinita.
Gli autori riportano abilmente al centro del discorso il virus, slegandolo dalla prospettiva che lo vede come una questione puramente amministrativa e come un fatto squisitamente cinese. Ma allo stesso tempo lo analizzano da una prospettiva che resta dentro i confini del paese, e anzi si focalizza proprio su Wuhan e sulle mancanze dell’amministrazione provinciale.
La storia di Li Wenliang, medico dell’Ospedale Centrale di Wuhan e whistleblower della prima ora, è piuttosto nota: a dicembre, assieme ad altri colleghi, condivide in alcuni gruppi WeChat la notizia di “una polmonite virale di origini sconosciute”. Azzittito dalle autorità, poi riabilitato, muore per Covid il 7 febbraio del 2020. Questi primi giorni già evidenziano la frammentazione nella catena di comando dello stato. Se da una parte il governo centrale diffonde il sequenziamento genetico del virus in tempo record e a inizio gennaio invia esperti nella città, tollera allo stesso tempo i tentativi delle autorità locali di contenere la diffusione delle notizie.
Prima ancora di sperimentare il lockdown che il 23 gennaio verrà imposto all’intera città, gli abitanti sono sottoposti a “un inquietante sequestro di informazioni”. Nelle prime settimane del 2020 le notizie sul virus e su come proteggersi dal contagio provengono da chi vive altrove in Cina, a Hong Kong, o perfino dall’estero. Dopo una prima fase che vede le autorità centrali e locali rimbalzarsi a vicenda le accuse per aver ritardato la diffusione delle notizie, si passa all’azione. Ma anche in tal caso, l’inefficienza delle istituzioni è evidente.
La chiusura viene imposta all’improvviso, senza indicazioni adeguate per la popolazione. Ed emergono subito difficoltà nell’approvvigionamento di cibo e nel garantire le attività economiche. Mentre sul web i video di supporto di centinaia di persone che in città e altrove urlano “Forza, Wuhan!” (武汉加油, Wuhan jiayou) diventano virali, una massiccia quantità di persone si dirige negli ospedali in preda al panico. Molti si contagiano proprio in quell’occasione.
“In quel momento ci chiedevamo se il governo stesse rinunciando a Wuhan e la nostra fiducia nelle autorità era a pezzi”. X, Z e W, tre abitanti della città intervistati da Chuang, raccontano che la sensazione diffusa è quella di vivere in luogo utilizzato come banco di prova, sacrificabile per la riuscita della strategia di contenimento nel resto del paese. I tre raccontano di questa prima fase in una serie di storie illustrate intitolata Wuhan Diaries (武汉日记, Wuhan Riji, tradotto in inglese qui).
La Cina di fatto riesce in breve tempo a garantire alla popolazione un ritorno a una vita più o meno normale. Tra il 2021 e il 2022 i nuovi focolai di varianti di Covid metteranno a dura prova varie parti del paese (uno tra tutti, il caso di Shanghai, che nel 2022 verrà sottoposta a due mesi di lockdown). Ma il caos in cui riversano le democrazie occidentali serve al governo di Pechino per dimostrare di essere riuscito in opere di contenimento impensabili anche per paesi più ricchi e con più risorse.
Si arriva a dire, come raccontano i tre attivisti di Wuhan, che l’insuccesso di molti paesi occidentali sia legato al fatto che siano “troppo democratici” o “troppo liberi”. Contagio sociale dedica più di un passaggio agli sforzi mediatici della Repubblica popolare per veicolare la frustrazione della popolazione verso attori esterni. Il punto di svolta, secondo gli autori, sono le dichiarazioni di inizio marzo del portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian, secondo cui il virus proviene dagli Stati Uniti. Per la precisione, dagli atleti e le atlete dell’esercito americano che hanno visitato Wuhan a ottobre 2019 per i giochi mondiali militari.
Malgrado i relativi successi nel rafforzare una narrazione che ripulisca l’immagine delle istituzioni, resta una verità: che la gente comune ha pagato un prezzo troppo alto. E il dramma microbiologico non può prescindere dal racconto del dramma sociale. È l’entità stessa della letteratura sulla peste, a cui si dedica la riflessione con cui si apre la lunga analisi che compone il capitolo finale: questo genere di narrazioni sono “raramente davvero sulla peste”. La pestilenza è allegoria del conflitto sociale, a lungo dimenticato, nascosto, occultato.
Chuang mette al bando, quindi, quelle narrazioni sulla pandemia che evitano di adottare una chiara posizione politica, e che sono per questo accolte calorosamente dall’industria editoriale straniera. Nella loro prospettiva i virus sono frutto delle storture di uno stato totalitario di orwelliana memoria. La pandemia viene anche utilizzata per impartire una lezione finale e trasversalmente valida su come la solidarietà scevra da connotazioni politiche possa contribuire a contrastare il male (e, quindi, anche lo stato). L’unico insegnamento ammissibile, ricorda Chuang, è riguardo alla devastazione a scala micro- e macro-ecologica che accompagna la produzione.
Ma c’è anche un’altra questione che vale la pena analizzare. Se è vero che la pandemia non si sia originata da elementi insiti nel sistema politico del paese, quanto meno ha permesso allo stato di testare nuovi modelli di repressione. Le istituzioni hanno fagocitato o sostituito perfino quei gruppi mutualistici dal basso frutto degli sforzi della popolazione per colmare le carenze del governo. Ecco perché, sottolineano gli autori, è sbagliato parlare del Covid-19 come di una “epidemia di mutuo aiuto”. La crisi e l’incapacità delle istituzioni di garantire una risposta adeguata hanno fornito “un’ulteriore giustificazione perché la burocrazia accelerasse lo sviluppo e l’estensione della sua presenza locale”.
Il contagio microbiologico ha offerto al governo della Repubblica popolare l’opportunità di progredire nel processo di state-building. Le previsioni sul consolidamento del potere statale di cui si parla in Contagio sociale, uscito nella sua prima versione in inglese a fine 2021, hanno mostrato una certa lungimiranza. Il ventesimo congresso dello scorso ottobre ha avviato lo storico terzo mandato di Xi Jinping, a capo di un Partito che è stato rimodellato a sua immagine e somiglianza.
Ma neanche in questo caso ci si trova di fronte a qualcosa di specificatamente cinese. La Repubblica popolare va semmai osservata come un contesto di facile sperimentazione per una commistione di crescita incontrollata e modelli repressivi. Con la sua capacità industriale, innovativa e tecnologica, Pechino si presenta come una delle avanguardie dell’espansione del capitale.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.