Ecco come Giuseppe Tucci entrò in contatto con Rabindranath Tagore, poeta bengalese e una delle menti più brillanti dell’epoca. Un capitolo de L’Esploratore del Duce – Volume I in esclusiva su China Files (per gentile concessione dell’autrice e delle case editrici Memori e Asiatica Association).
Ma veniamo ai rapporti di Tucci con Tagore. Grazie al poeta, il primo contatto di Tucci con l’India fu, come abbiamo visto, molto fortunato, perché ebbe come insegnante una delle personalità più forti e rappresentative dell’India moderna e si trovò proiettato in un ambiente selezionatissimo, elitario eppure internazionale.
Durante la sua permanenza a Viśvabhāratī non si limitò a insegnare italiano, ma collaborò con sinologi e tibetologi, partecipando in tutto e per tutto alla vita del centro. Dal canto suo, Tagore seguì il nostro studioso passo passo, provò per lui affetto e ammirazione, specie perché dava sfoggio di cultura e aveva la gran dote di amalgamarsi all’ambiente circostante e di acquisirne una comprensione “dall’interno”, empatica, come se ne facesse parte.
Racconta Tucci che si incontrava molto spesso per il chai con il poeta e con gli altri membri della scuola – un rito sociale a cui nessuno si può sottrarre – e veniva sempre chiamato quando arrivavano personalità o studiosi dall’estero. Di lui scrisse che "egli era così affezionato a me che passò un po’ del suo tempo ad insegnarmi Bengali".
Il tempo trascorso insieme dovette essere abbastanza, se Tucci racconta che lesse con lui due opere del poeta in lingua: Sāhitya (1907), Letteratura, che conteneva alcuni dei saggi di critica letteraria "più brillanti" che avesse mai letto, e Lipikā(1922), Scritti, una raccolta di poemi in prosa e storie allegoriche.
Probabilmente, però, Tucci nobilitò un po’ il suo studio del bangla. Infatti già vi era stato introdotto dallo studioso Kalidas Nag. Alla fine dell’estate 1921 questi, che studiava con Lévi a Parigi, visitò Roma e fu aiutato da Formichi a trovare una sistemazione economica. Infervorato dai racconti di Kalidas su Tagore, agli inizi del maggio 1921 Formichi aveva già scritto a Rathindranath per una eventuale visita.
Come ospite assiduo di Formichi che, ben sapendo che il governo non finanziava i congressi e i viaggi di studio all’estero, non perdeva l’occasione di incontrare gli studiosi stranieri in visita in Italia, Kalidas divenne amico dei suoi amici e frequentatori abituali, come il sinologo e matematico Giovanni Vacca, professore all’Università di Roma e mentore di Tucci, che da lui fu iniziato agli studi sulla Cina, l’indologo e buddhologo Ferdinando Belloni-Filippi, docente all’Università di Pisa e di Firenze e autore del libretto Tagore, pubblicato da Formiggini nel 1920, lo scrittore Helwig e lo stesso "professor Tucci", come già lo chiamava.
A detta di Kalidas, questi era uno studioso instancabile e un ottimo cicerone. Gli era stato presentato da Formichi, nell’agosto 1921, e in settembre Tucci lo aveva accompagnato a visitare la Biblioteca dell’"Accademy Lenci" – così scrive Kalidas intendendo certamente l’Accademia dei Lincei – e quella del Parlamento.
Si era stupito molto che Tucci conoscesse l’ebraico, il sanscrito e l’hindi e quando tornò, nell’estate del 1923, gli insegnò il bangla con il primo capitolo di Ṡrīkānta, un romanzo dello scrittore bengalese Sarat Chandra Chatterjee. In tale occasione recitò dei poemi di Tagore al cospetto del suo anfitrione e di Tucci e cantò alcune sue liriche. Formichi e Kalidas discussero della possibilità di invitare Tagore a Roma affinché tenesse delle conferenze e Kalidas gli promise che, tornato in India, non avrebbe tralasciato nulla per invogliare il poeta a venire in Italia.
Ancor prima di conoscerlo, Tucci e Formichi si appassionarono alla personalità del poeta a tal punto che Formichi si persuase che fosse il più grande uomo del mondo e sperò di incontrarlo a Roma. Formichi scrisse che Tagore era come Buddha che transitando per la via emanava dalla sua persona tanta maestà che anche chi non lo conosceva si affrettava istintivamente a cedergli il passo e a fargli onore.
L’accostamento fra Buddha e Tagore non era poi così assurdo a quei tempi: qualche anno più tardi De Lorenzo, nel suo libro Oriente ed Occidente, paragonò Mussolini al Buddha, sulla base di un discorso da lui tenuto nel 1902 e ricordato nella famosa biografia Dux, pubblicata da una delle amanti del Duce, Margherita Sarfatti.
Kalidas al tempo era fortemente antifascista perché pensava che, sotto il fascismo, l’omicidio e la violenza, apertamente o segretamente, fossero "all’ordine del giorno"; inoltre, trovava assurdo che i fascisti urlassero perché si svegliasse un’Italia nuova, mentre vi erano alcuni suoi grandi figli come Galileo, Michelangelo, Dante, Leonardo e altri che dormivano di un sonno eterno.
Notò che Benedetto Croce dovette lasciare Roma per essersi dichiarato antifascista, ma trovò i professori Formichi, Tucci, il Dr. Helwig, il Dr. Vacca, il conte Cagnola e altri dell’aristrocrazia intellettuale "ancora liberi dal virus del Fascismo".
Quando Kalidas a novembre tornò a Parigi cominciò a corrispondere regolarmente con Tucci e Formichi, considerandoli amici intimi. Nel 1923 tornò in Italia direttamente dall’India e fu ospite di Formichi. Nello stesso anno pubblicò la sua tesi sulle teorie diplomatiche dell’India antica: era stato proprio Formichi, già autore di saggi di scienza politica, che gliela aveva riletta, dandogli consigli e suggerimenti.
Furono quindi Kalidas e l’avvocato D. J. Irani, studioso di Zoroastro e grande amico di Tagore – che gli aveva scritto la prefazione alla sua traduzione degli inni di Zarathustra – che capitava spesso a casa di Formichi e di cui quest’ultimo cita il libretto Gems from the Divine Songs of Zoroaster, che lo infervorarono a tal punto da spingerlo a invitare Tagore per farlo conoscere al pubblico italiano.
A Viśvabhāratī quindi Tucci non imparò ma perfezionò la conoscenza del bangla e imparò il sanscrito parlato, esercitandosi nelle disquisizioni filosofiche o grammaticali con i pandit della scuola. Ora le lingue che conosceva erano almeno undici: l’ebraico, l’iranico, il cinese, il sanscrito scritto e orale, il pāli del canone buddhista, il sanscrito ibrido – cioè il sanscrito misto a parole pracrite delle lingue locali – di certa letteratura del Grande veicolo, il bangla, l’hindi e, ovviamente, l’inglese, oltre al greco antico e al latino.
Conosceva anche qualche lingua locale e qualche dialetto pracrito, come quello usato nella Karpūramañjarī di Rājaśekhara; ben presto a queste lingue si aggiunse il nepali che, a detta di chi lo conobbe, parlava abbastanza bene. E ovviamente il tibetano orale e letterario.
Discorrendo con Kalidas, Formichi aveva definito sé stesso e Tucci cultori di buddhismo. Nell’introduzione alla Karpūramañjarī del 1922 Tucci scrisse, a proposito dell’opinione "convenzionale e falsa" che molti hanno della civiltà indiana:
L’India non è stata un paese di soli sognatori e di asceti che il mondo hanno rinnegato e fuggito. No; gl’indiani hanno goduto e sofferto come tutti gli altri popoli, ma quando avessero sperimentato l’illusione di ogni cosa umana, la transitorietà di ogni bene terreno, sapevano pure che a ciascuno era aperta una dottrina liberatrice che sola poteva dare pace agli spiriti insoddisfatti.
La "dottrina liberatrice" per eccellenza che pacifica gli spiriti insoddisfatti è il buddhismo, secondo cui siamo imprigionati in un’illusione che ci fa apparire solide e durature le molteplici manifestazioni del mondo che, invece, è effimero e impermanente. Il Buddha ci ha indicato come tutto muti e sia in continua trasformazione; per questo bisogna superare l’attaccamento al mondo fenomenico e il desiderio di ciò che per sua natura non può dare sostegno, perché cambia di continuo ed è caratterizzato da impermanenza, dolore e transitorietà.
Bisogna educarci a prendere coscienza del dolore e dell’insoddisfazione generati anche dalle più piacevoli esperienze terrene, estirpando l’ignoranza sulla vera natura del mondo e illuminandoci sulla nostra reale condizione. Solo nell’emancipazione finale dal ciclo delle rinascite gli "spiriti insoddisfatti" trovano la pace ed estinguono il desiderio che, a sua volta, porta alle continue rinascite.
A uno spirito curioso e insoddisfatto come quello di Tucci, come qualche decennio dopo si definì, mai pago, anche se raggiunse le più alte vette del pensiero, le più alte montagne del Tetto del mondo e le più alte cariche, solo il buddhismo poteva recare pace; e le poche righe d’introduzione alla Karpūramañjarī, scritte quando aveva meno di 28 anni, suonano come il suo manifesto spirituale programmatico.
A Viśvabhāratī, sia per rendere omaggio a un personaggio così famoso di cui era ospite, sia per festeggiare il compleanno di Tagore del 7 maggio 1926, Tucci fece stampare un componimento inglese in forma di libretto intitolato Gurudev:
Oggi mi sento molto turbato perché mi rendo conto che non posso esprimere quello che ho nel cuore. […] Avere l’anima del poeta eppure mancare del dono della poesia, è davvero un tragico destino. […] Oggi, Gurudev, vorrei essere un poeta come te per esprimerti quello che sento. Ma io stesso non so quello che sento nel mio cuore per te: nessuna parola può dirlo meglio: Bhakti; infatti ha l’ineffabile espressività dell’indefinito.
Bhakti è la devozione cieca che il mistico prova per il suo dio e che esprime con gioia cantando, danzando, suonando e declamando inni. È un rapimento mistico simile alla follia, un sentimento assoluto e viscerale che non ha niente del ragionare ponderato di altre forme d’espressione religiosa, un amore quasi incontrollato che scaturisce dal più profondo del nostro essere.
Chi è che non ha mai visto i fedeli di Kṛṣṇa aderenti all’Iskcon, l’International Society for Krishna Consciousness, i cosiddetti Hare Krishna o Bambini di Dio, cantare, suonare e volteggiare nelle loro vesti svolazzanti e colorate, allegri, leggeri e apparentemente dimentichi di tutto? Questi sono i bhakta, cioè i fedeli delle correnti devozionali bhakti che si svilupparono nel Medioevo nell’India meridionale. Proprio in onore di Kṛṣṇa, che è un avatāra di Viṣṇu – cioè la forma sotto cui il dio discende in terra e si rivela in una certa era per adattarsi ai diversi bisogni degli uomini – si è formato questo movimento bhakti.
È difficile immaginare il razionalissimo Tucci pervaso dalla bhakti che, una volta afferrato il credente, rivoluziona la sua vita e lo spinge a lasciare tutto ciò che è terreno – famiglia, beni, lavoro – per dedicarsi esclusivamente alla lode gioiosa dell’Eterno. Ma, si sa, il nostro cuore è, in fin dei conti, insondabile; e, in ogni caso, il biglietto a Tagore manda un messaggio forte che sarà stato certamente bene accolto.
Dopo aver paragonato il poeta a una divinità, capace di leggere al di là delle parole nel cuore degli uomini, Tucci continuò dicendo che le ali della poesia di Tagore e il messaggio d’amore che lui cantava al mondo avevano trasceso i limiti del finito temporale e spaziale, perché la poesia e la musica rappresentano la "voce dell’eterna Verità". Così il poeta vive per sempre nella bellezza e nella verità eterne, che si sono rivelate attraverso il rapimento dell’arte.
Tucci concluse che a un personaggio come Tagore si potevano rivolgere solo ringraziamenti e preghiere, perché non gli si confacevano gli auguri, adatti solo ai comuni mortali. Terminò la lode con: "Un ringraziamento per quello che tu ci hai già dato, una preghiera per quello che tu devi ancora darci".
Il rapporto con Tagore, quindi, fu per lui molto intenso. Partecipò in tutto e per tutto alla vita di Śāntiniketan pregando nel tempio di Viśvabhāratī e davanti al mandir, studiando con gli altri studiosi, condividendo la mensa, assistendo alle opere teatrali di Tagore, agli spettacoli di danza rappresentati nel teatro della "dimora della pace" e ai concerti. Tucci viveva quello che studiava e studiava quello che viveva.
Ma se il suo comportamento, informato dall’ansia di conoscere e di sperimentare, fu perfettamente conforme alla visione dell’uomo italiano del tempo, l’uomo "ardito e gagliardo" pronto ad andare in prima linea e a vivere in prima persona le esperienze di cui egli stesso andava in cerca, specie quelle che lo esaltavano e lo spronavano a raggiungere una supremazia sugli altri uomini, esso pareva in qualche modo accordarsi anche alla visione di Tagore, anche se questi credeva che l’umanità avesse il dovere di cercare una pace duratura che derivasse dall’incontro degli uomini e non dalla sopraffazione.
Per lui, come la scienza non era il mero dominio sulla natura, così lo spirito più vero dell’uomo si rivelava non già nel dominio ma nell’incontro con l’altro, che solo avrebbe prodotto l’unità interiore dell’uomo, la sua riunificazione con sé stesso.
Quando Tagore, dopo la sua seconda visita in Italia, prese le distanze dal fascismo e da Mussolini, dicendo che era stato raggirato, Formichi interruppe il rapporto personale con lui: non poteva perdonargli di aver fatto entrare la politica nella loro amicizia. Nel 1926 comunque fu pubblicato, a cura di Tagore, il libretto di 45 pagine che includeva l’omonimo articolo del poeta The Meaning of Art, uno di Tucci dal titolo The idealistic School in Buddhism e Meditative and active India di Formichi.
Tucci, invece, più diplomatico, si destreggiò abilmente fra due posizioni: ruppe ufficialmente ogni relazione con Viśvabhārati, per non inimicarsi Mussolini, Gentile e i politici di cui aveva l’appoggio, ma continuò il rapporto con Tagore a livello personale. Il poeta era un personaggio troppo noto per poter essere messo da parte e, come vedremo, la lealtà di Tucci verso il fascismo non era poi così forte.
Scrivendo a un amico sconosciuto a proposito di Viśvabhāratī, attaccò l’organizzazione e la direzione dell’università in mano a Rathindranath e Prasanta, rispettivamente il direttore e il segretario, due persone sostanzialmente inette. Pur dichiarandosi partecipe del sogno internazionalista del poeta, disse che l’atmosfera dell’università non era vicina all’idea per cui era stata fondata, quella cioè di farne il luogo di incontro fra la cultura orientale e quella occidentale. Il motivo per cui se ne andava sarebbe dunque stato questo insieme di incomprensioni.
Il 29 dicembre scrisse però al poeta dicendo che la sua critica era stata ispirata dall’amore per l’istituzione e non da motivi personali e sperava che lui non avesse una brutta opinione del suo carattere e gli mandasse il regalo della collezione completa dei suoi lavori. Immediatamente, il 31 dicembre, Tagore gli rispose dichiarandosi "molto sollevato" nel vedere che i suoi rapporti personali con lui non si erano guastati, come era successo invece con Formichi, e gli fece pervenire dei libri.
Tucci considerò Tagore un ṛṣi, ovvero un veggente, alla stregua dei ṛṣi che composero il Ṛgveda e lo trasmisero agli uomini. Di lui scrisse, vent’anni dopo la sua morte, in Recollections of Tagore:
Mi resi conto allora che il Poeta non era solo nei suoi lavori; come sempre accade nella vita, anche se uno è un poeta, si può esprimere per scritto solo una parte di sé. Quando l’uomo spicca così potentemente come fece Tagore, la personalità che rimane inespressa è forse più imponente di quella che appare o prende forma — così come le onde del mare nella loro bellezza sempre cangiante danno solo un’idea della profondità che giace sotto.
E su Śāntiniketan, ora che il fascismo era caduto da un pezzo, espresse un parere completamente positivo, dicendo che rappresentava la proiezione del suo ideatore che, con la sua "brillante guida", aveva creato "[…] un’isola dove quelli che non avevano perso la fede nel genere umano e il suo destino, o non disperavano che il divino in noi potesse brillare di nuovo in pieno splendore, potevano trovare un’atmosfera congeniale per curare e nutrire le loro speranze".
Egli aveva una chiara idea della missione che l’India aveva sempre esercitato come centro d’irradiazione di cultura. Il buddhismo ricevette grande attenzione nel curriculum di Shantiniketan. Il cinese e il tibetano avevano la stessa importanza del sanscrito, perché era ben consapevole che c’era una Grande India, dove le più brillanti e perenni conquiste dei suoi artisti e dei suoi pensatori avevano diffuso la loro ispirazione.
A quel tempo, Shantiniketan era forse l’unico posto in India dove si potevano perseguire ricerche comparative in buddhismo, perché non solo si potevano incontrare studiosi cinesi e discutere con i più colti pandit indiani, ma si potevano anche trovare libri non disponibili da nessun’altra parte. Più di tutto, uno poteva essere imbevuto dello spirito dell’India, quello spirito che è una combinazione dei più brillanti flash di intuizione, scoprendo per immediata illuminazione la sfera dell’ignoto e della più sottile dialettica: tutto questo con uno spirito di comprensione e tolleranza che ancora rimane il messaggio dell’India al mondo.
Tucci era ormai mille miglia lontano dall’arido filologismo delle università italiane; d’altra parte, usando la filologia come mezzo privilegiato per entrare nel mondo antico, imparò una mole incredibile di usi e costumi a lui contemporanei, una cultura viva ma tradizionale, ancora immune dai veleni dell’Occidente, che gli sarà di indispensabile aiuto per le missioni esplorative.
Considerò a venire il tempo passato con Tagore uno dei più fecondi della sua vita e concluse, parlando del periodo trascorso nella sua università: "[…] quegli anni in cui l’ispirazione del Rishi aiutò a far germinare nella mia anima un po’ di semi che forse avrebbero dato frutto più tardi".
Śāntiniketan e i viaggi per l’Asia meridionale furono per Tucci dei veri e propri pellegrinaggi formativi, essenziali per i suoi studi e per le imprese che seguirono. Fu uno dei primi studiosi italiani, insieme a Formichi e pochissimi altri, a uscire dal provincialismo della cultura orientalistica che si formava sui libri, italiani o tedeschi, e terminava sui libri. Il suo percorso culturale aprì le porte a una conoscenza viva delle nazioni e del passato dei popoli che le abitavano, alle loro culture, le loro tradizioni, le loro credenze, i loro miti e le loro visioni.
Anche negli anni a venire Tucci si tenne in stretto contatto con gli studiosi che aveva conosciuto nel periodo indiano e questi rapporti furono indispensabili per la gestione dell’IsMEO, un istituto per sua natura internazionale. Gli permisero inoltre di partire per la sua ultima grande avventura, le missioni archeologiche in Asia centrale e meridionale.
Formichi gettò i semi, Tagore contribuì a farli germogliare. Tucci li mise brillantemente a frutto.
Leggi anche la nostra intervista all’autrice, Enrica Garzilli, e il capitolo sui rapporti tra Giuseppe Tucci e il Dalai Lama, in esclusiva su China Files.
[Foto: Rabindranath Tagore e studenti a Shantiniketan, 1929. Credit: cgu.edu]*Enrica Garzilli, indologa e asiatista, Lecturer di sanscrito allʼuniversità di Harvard (Usa), direttore editoriale della Harvard Oriental Series – Opera Minora, Research Affiliate allʼUniversità di Delhi (India), Senior Fellow allʼHarvard Center for the Study of World Religions, docente presso le università di Torino e di Perugia. Collabora a riviste e giornali quali Limes, Ispi – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Il Fatto Quotidiano su temi di politica internazionale e diritti umani. Per Memori/Asiatica Association ha pubblicato L’Esploratore del Duce – Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini ad Andreotti (Vol I e II), acquistabile su Amazon.