Il calo delle nascite non fa male solo all’economia giapponese. A risentire negativamente dei numeri è anche il suo esercito: le cosiddette Jieitai, ovvero le Forze di autodifesa giapponesi (SDF) create dopo la fine della seconda guerra mondiale – “ufficialmente” – con l’unico scopo di mantenere la pace e, di questi tempi, difendere il paese dalle provocazioni nordcoreane.
Secondo recenti dati del governo, oltre il 28% della popolazione nipponica è da considerarsi vecchia – con gli over 65 ormai a quota 35,6 milioni -, la percentuale più alta al mondo. Un trend spiegabile alla luce delle migliori aspettative di vita ma soprattutto del costante calo delle nascite, ferme da due anni sotto il milione. Una popolazione ingrigita comporta pesi notevoli per il sistema pensionistico giapponese, costretto a fare affidamento su un minor numero di contribuenti. Ma non solo.
A causa del basso tasso di natalità, il numero di giapponesi nella fascia di età per il reclutamento (tra 18 e i 26 anni) è sceso a 11 milioni rispetto ai 17 milioni del 1994. Ed entro i prossimi trent’anni si prevede toccherà i 7,8 milioni. D’altronde è dal 2014 che l’esercito non riesce a raggiungere le quote di reclutamento previste, tanto che nell’anno terminato a marzo è arrivato a riempire appena il 77% dei 9.734 posti aperti tra le cariche di rango più basso.
Gli esperti la chiamano “crisi silenziosa”. Il Sol Levante è costantemente minacciato da centinaia di missili nordcoreani a medio raggio in grado di raggiungere il territorio nipponico. Una situazione – che l’ultimo libro bianco della Difesa definisce “un nuovo livello di pericolo” -, a cui si aggiungono le mai sopite rivalità territoriali con Pechino nelle acque contese del Mar Cinese orientale.
Stando a quanto proposto dal ministero della Difesa, la spesa militare giapponese per il 2019 dovrebbe sfiorare i 50 miliardi di dollari, cifra record, pari a un aumento del 2,1 per cento rispetto a quanto stanziato nel 2018, con la difesa balistica a fare la parte del leone. Peccato però che manchino le risorse primarie. “A meno che non si riesca a sostituire un numero considerevole di persone con dei robot, tra vent’anni sarà difficile riuscire a mantenere l’attuale livello di capacità belliche”, spiega alla Reuters l’ex vice-ministro della Difesa Akihisa Nagashima, “e allora la situazione per il Giappone non sarà più pacifica.”
Con il miglioramento dell’economia giapponese, la disoccupazione è scesa ai minimi da circa 25 anni e il numero degli iscritti all’università è aumentato. Certamente un bene secondo molti punti di vista ma non per le sue capacità difensive. Nonostante fosse stato stanziato un budget sufficiente a retribuire complessivamente 247.154 dipendenti (quanto contavano le forze di autodifesa nel 2016), nel 2018 l’esercito ha impiegato solo 226.789 persone. Con il margine più ridotto registrato tra i ranghi inferiori, circa il 26% in meno di quanto preventivato. Che fare?
Considerata l’incostituzionalità della coscrizione obbligatoria, rimangono aperte due strade: reclutare più donne e innalzare l’età massima per le nuove leve, che dal mese prossimo sarà portata a 32 anni. Un’Iniziativa sul Potenziamento del personale femminile, presentata lo scorso anno, mira a aumentare le “quote rosa” nelle SDF dal 6,1% del 2016 ad almeno un 9% del 2030. Numeri – ugualmente molto al di sotto rispetto a Stati Uniti (15%) e Gran Bretagna (10%) – che difficilmente faranno la differenza, soprattutto data l’usuale limitazione delle donne a impieghi per i quali non è previsto l’utilizzo delle armi.
La verità è che, sebbene il 90% della popolazione provi simpatia per l’operosità dell’esercito nelle situazioni di crisi – tifoni e terremoti non mancano nell’arcipelago – il Giappone sconta ancora il trauma della seconda guerra mondiale e 70 anni di propaganda pacifista. Secondo un sondaggio di Kyodo News, solo il 36% della popolazione si è detto favorevole alla controversa revisione della costituzione pacifista con cui il premier Shinzo Abe nel 2020 punta a dotare il paese di un esercito “normale”, in grado anche di offendere e non solo di difendere.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.