Che effetto fa, quarant’anni dopo la morte di Mao, la lettura del libro scritto dal giornalista statunitense Edgar Snow, che per primo racconta il futuro leader della «nuova Cina»? Un mondo totalmente diverso con alcune tracce di continuità, con la metamorfosi di cui si è reso protagonista il Partito. Che effetto fa leggere oggi, quarant’anni dopo la morte di Mao, «Stella rossa sulla Cina»?
Tra il 1936 e 1937, il giornalista statunitense Edgar Snow, corrispondente da Pechino, compie un viaggio che nessuno dei suoi colleghi si sogna di fare. Entra nelle regioni della Cina centro-settentrionale dove – dopo la Lunga Marcia – si è arroccata e combatte su due fronti l’armata rossa cinese: contro il Guomindang e contro i giapponesi. Lì, il giornalista occidentale che si era fatto costruire un campo da tennis nel suo siheyuan pechinese assiste alla nascita il primo nucleo di Cina comunista che, curiosamente, più o meno coincide geograficamente con l’insediamento originario della civiltà cinese, attorno al fiume Giallo.
Snow passa lunghe ore a conversare con Mao e con gli altri leader rossi, ma il futuro «Grande Timoniere» ha assolutamente un ruolo centrale in tutto il racconto (più tardi confesserà di avere pensato che Snow fosse una spia).
A luglio 1937, «sotto il rombo delle cannonate dell’esercito giapponese», che sta attaccando Pechino in seguito all’incidente del ponte di Marco Polo, Snow finisce di scrivere il libro che diventerà il primo reportage giornalistico e la prima fonte storica sulla Cina di Mao. Snow è il testimone principe di vicende storiche il cui filo lungo arriva fino a oggi.
«Stella rossa sulla Cina», il suo classico novecentesco, è stato ripubblicato di recente da Il Saggiatore, nella traduzione di Renata Pisu e con l’introduzione di Enrica Collotti Pischel, che risale al 1965.
Rileggendolo oggi, il primo elemento che colpisce è la non crudeltà dell’esercito rosso, almeno nel racconto di Snow. I nemici vengono circondati e «disarmati», il giornalista statunitense, pur simpatizzante, insiste nel dire che solo in estremi casi si ricorre alla giustizia sommaria. È un atteggiamento che sembra nascere dalla sicurezza di avere ragione e che questa ragione vincerà; una forza che consiste nella totale identificazione di classe. Il nemico non è nemico fino in fondo, può essere redento. L’esercito rosso raccontato da Snow ha perfettamente compreso il proprio ruolo di direzione, il fatto di essere una forza politico-militare moderna, un dispositivo che si adatta perfettamente alla base sociale che intende emancipare. È questa unione perfetta, l’identificazione completa tra vertici e base, che il Mao rivoluzionario perde nel passaggio al Mao leder del Paese.
Oggi, se il Grande Timoniere è considerato comunque il fondatore della Cina moderna, sono parecchi anche in Cina coloro che hanno vissuto sulla propria carne o per ricordi familiari gli eccessi del Grande Balzo in avanti o della Rivoluzione Culturale. E anche il Partito celebra Mao in sordina: resta nel Dna il suo volontarismo rivoluzionario, che però si è trasferito nel mercato. L’hanno chiamata «demaoizzazione nel nome di Mao».
Il secondo elemento, che discende dal primo, è l’importanza dell’esempio nella propaganda rossa degli anni Trenta. Nella sua introduzione del 1965, Enrica Collotti Pischel parla di «un esercito di missionari» che diffondono una nuova etica e un nuovo tipo di rapporti umani. Insegnano i caratteri ai contadini analfabeti e la stessa propaganda connaturata a quell’insegnamento – i contadini imparano spesso slogan e frasi fatte – è presentata pur con qualche dubbio da Snow non come lavaggio del cervello, bensì come stadio di avanzamento verso una coscienza collettiva. Del resto è la «massa» il soggetto di quest’opera: non interessa creare l’individuo piccolo borghese ma la coscienza di classe. Pochi fronzoli, si combatte perché i contadini muoiono di fame mentre qualcun altro si arricchisce. E Mao è il guardiano di questo patto tra avanguardia e massa. Certo, colpisce il fatto che tutte le nefandezze di cui si rendono colpevoli i funzionari del Guomindang nel racconto di Snow potrebbero essere oggi tranquillamente ascritte ai funzionari comunisti a noi contemporanei. E per questo, nel cuore di molti, Mao vive ancora: «Quando c’era lui, c’era uguaglianza», dicono oggi i neo-maoisti più convinti.
La terza cosa che colpisce è il susseguirsi di nomi che sono in auge quando Snow scrive il libro e che saranno poi travolti dalla Rivoluzione Culturale, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Lo spaesamento è doppio, perché nelle note di Enrica Collotti Pischel, i «rossi» protagonisti sono spesso raccontati nella loro carica del 1965, quando molti tra loro si trovavano ai vertici del potere immediatamente prima della repentina caduta. Un triplo salto temporale: Snow descrive il rivoluzionario, Pischel offre informazioni sul leader ormai affermato, la nostra mente fotografa un morto che cammina. In tutto questo, uno solo rimane intoccabile: lui, Mao Zedong. Fino a quell’autunno del 1976 in cui la Cina perse il suo leader e il Partito cominciò la metamorfosi che arriva a oggi.