Legge marziale in Corea del sud: che cosa è successo

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

L’improvviso annuncio di Yoon Suk-yeol sconvolge Seul. Rapida reazione dell’Assemblea nazionale che vota la richiesta di revoca, accettata dopo qualche ora di silenzio. Ora si aprono forti incognite interne e regionali

Era iniziata con l’improvviso annuncio dell’imposizione della legge marziale di emergenza. È continuata con l’assalto dei militari all’Assemblea nazionale, per impedire il voto di richiesta di revoca dei parlamentari. È finita con le centinaia di persone scese in strada per protestare a chiedere l’arresto di Yoon Suk-yeol, costretto a revocare quanto aveva imposto poche ore prima. La folle notte della Corea del sud rischia di avere conseguenze profonde, dopo quello che è stato a tutti gli effetti un tentativo di golpe di palazzo. Protagonista il presidente conservatore, che alle dieci e mezza di sera ha tenuto una conferenza stampa improvvisa annunciando la tredicesima legge marziale della storia del paese. La prima in tempi di “democrazia liberale”, dopo le 12 dell’epoca della dittatura, l’ultima nel 1979. Una decisione abnorme, che non sarebbe stata comunicata nemmeno ai suoi fedelissimi, e motivata dalla necessità di “proteggere la Corea del sud dalle forze comuniste nordcoreane”. Eppure, la minaccia dei missili di Kim Jong-un, per una volta, non c’entrava nulla. Le logiche della mossa sono prettamente interne. “La nostra Assemblea nazionale è diventata un rifugio per i criminali, un covo di dittatura legislativa che cerca di paralizzare il sistema amministrativo e giudiziario e di rovesciare il nostro ordine democratico liberale”, ha detto Yoon, che ha usato parole durissime contro l’opposizione, accusata di aver tagliato “tutti i bilanci essenziali per le funzioni primarie della nazione, ovvero la lotta alla criminalità e il mantenimento della sicurezza pubblica, trasformando il paese in un paradiso della droga e in un luogo di caos per la sicurezza pubblica”. Il riferimento è allo stallo sulla legge di bilancio proposta dal governo, a cui il Partito democratico ha votato contro, forte di una schiacciante maggioranza in parlamento conquistata alle elezioni legislative dello scorso aprile.

Il decreto emesso poco dopo dal comando militare ha messo al bando qualsiasi attività politica, comprese quelle parlamentari, e ogni forma di protesta. Coi media a finire sotto controllo e arresti possibili senza un mandato. All’inizio, in tanti hanno creduto a uno scherzo, scaturito da un clima politico di veleni e complottismi. Invece era tutto vero. I sudcoreani se ne sono accorti quando hanno visto le immagini dei blindati dei militari in centro a Seul, con gli elicotteri sopra la sede del parlamento. I soldati hanno bloccato gli accessi, entrando in rotta di collisione coi manifestanti chiamati “alle armi” da Lee Jae-myung, il leader dell’opposizione sopravvissuto a un accoltellamento durante un comizio dello scorso gennaio e diventato virale ieri sera con un live streaming mentre si arrampica su una parete per entrare in parlamento.

All’interno dell’edificio sono riusciti a radunarsi 190 dei 300 deputati, che hanno resistito ai tentativi di irruzione dei militari e hanno portato a termine le operazioni di voto, approvando in modo unanime la richiesta di revoca della legge marziale. Compresi quelli dello stesso partito di Yoon, che si è detto contrario alla decisione del leader. Secondo la costituzione, il presidente è tenuto ad accettare. Nel cuore della notte, Yoon si è barricato in un ambiguo silenzio. Ma, nel frattempo, i militari hanno lasciato l’assemblea nazionale. Pur senza rientrare tutti alla base, non lontana da quella che ospita parecchie delle circa 29 mila truppe statunitensi presenti in Corea del sud. Quando erano quasi le cinque del mattino, Yoon ha ceduto annunciando che revocherà la legge marziale.

Non può sfuggire che il caos avviene in una delicata fase di transizione internazionale. In attesa del suo insediamento, Donald Trump ha già inviato segnali di dialogo alla Corea del nord, nominando vice consigliere per la sicurezza nazionale Alex Wong, l’uomo che tesse la tela necessaria ai due vertici con Kim Jong-un durante il suo primo mandato. E Yoon è finito sotto un attacco sempre più perentorio sul fronte interno, con l’opposizione che lo critica per una linea giudicata troppo vicina (o “asservita”) a Giappone e Usa. Ricevendo il ministro della Difesa ucraino, Yoon ha poi aperto all’invio di armi a Kiev, potenziale superamento di una norma che impedisce l’assistenza militare a paesi in conflitto. A Seul molti temono un passo del genere, ancor di più dopo che Pyongyang ha inviato migliaia di soldati a combattere al fianco di Mosca, che commentando la legge marziale ha ironicamente invitato l’occidente a comminare sanzioni contro la Corea del sud. Ma il contropiede di Yoon si è trasformato in un autogol che potrebbe anche voler dire impeachment.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]