Sono un modello di crescita e modernizzazione per tutta la Cina, un aggregato di innovazione e best practices produttive in grado di competere con i più avanzati distretti industriali delle maggiori economie del pianeta. Il loro nome è sinonimo di progresso, sviluppo, investimenti, crescita del Pil e occupazione. Ma anche di inquinamento, degrado degli ecosistemi locali e devastazione ambientale. Sono le Zes, le Zone economiche speciali, sorte alla fine degli anni Settanta e da allora divenute il principale motore della locomotiva cinese. Grazie agli speciali regimi fiscali agevolati di cui godono e alla normativa ad hoc che disciplina le attività che vi si concentrano, studiata appositamente per attrarre le imprese e gli investimenti stranieri, queste regioni hanno rappresentato uno degli strumenti di arrampicata più importanti utilizzati dal Dragone negli ultimi decenni per arrivare sulla vetta dell’economia globale. Come avverte il proverbio, però, non tutto ciò che luccica è oro puro. Uno studio pubblicato dal ministero per la Protezione ambientale cinese sottolinea come sotto questa calotta di estrema efficienza si celi un nero sostrato di emissioni inquinanti, rifiuti pericolosi e attività altamente impattanti sull’ambiente.
L’analisi prende in considerazione 5 Zes, che coprono un’area comprendente 15 province: si tratta delle zone della Baia di Bohai, nel nord del Paese, della costa occidentale dello Stretto di Taiwan, nell’est, dell’area di Chengdu-Chongqing, nel sud-ovest, del Golfo di Beibu e della parte superiore dello Huang He, il Fiume Giallo, nel nord-ovest. Insieme queste aree contribuiscono ogni anno al 22 per cento della crescita dell’economia cinese, che tradotto in termini di Pil significa poco più di un quinto di quasi 8.000 miliardi di dollari. Una performance strabiliante, garantita dal continuo sviluppo delle industrie metallurgiche, petrolchimiche, energetiche e manifatturiere presenti in queste regioni.
Dal punto di vista ambientale, tuttavia, i problemi collegati a questa crescita ipertrofica sono notevoli: il patrimonio vegetale, animale ed ecologico che le Zes ospitano è infatti esposto a gravi rischi e a un danneggiamento costante collegato agli elevatissimi ritmi produttivi raggiunti al loro interno e alla crescente quantità di rifiuti ed emissioni nocive da esse generati. «Le Zes che abbiamo monitorato mostrano segni di pesante degrado ambientale e squilibri crescenti negli ecosistemi locali», ha spiegato Chen Jining, vice rettore dell’università di Tsinghua, che ha contribuito alla stesura del rapporto. Tra le aree maggiormente a rischio c’è quella del Fiume Giallo, lungo il corso del quale hanno sede grandi industrie chimiche ed energetiche. «Se gli attuali ritmi di crescita non verranno ridotti, nel 2015 la loro capacità produttiva sarà pari al 156 per cento di quella del 2007», ha sottolineato Chen, lasciando intendere le conseguenze dannose che l’ambiente sarebbe costretto a sopportare se un simile livello fosse effettivamente raggiunto.
Il report evidenzia come attualmente una delle maggiori criticità dei piani di sviluppo elaborati dalle autorità per le Zes sia rappresentato dalla collocazione degli impianti produttivi lungo il corso di fiumi e nei pressi di laghi e coste marittime, aree soggette maggiormente al rischio di inquinamento rispetto ad altre. Una precisazione che riporta inevitabilmente alla mente l’incidente di luglio nel porto di Dalian, quando a seguito dell’esplosione di due condutture di una grande raffineria, una chiazza di petrolio di 50 chilometri quadrati si è riversata nelle acque della Baia di Bohai. I fiorenti allevamenti ittici della zona, rinomati anche in Giappone, sono stati così devastati da quella che tutti i giornali del mondo hanno prontamente soprannominato “la macchia nera cinese”.
«La lezione che possiamo trarne è quella dell’importanza di un’adeguata pianificazione per ogni progetto di sviluppo industriale», ha dichiarato Wu Xiaoqing, vice ministro per la Protezione ambientale. Nella sua parte finale il documento del dicastero indica nel dettaglio le linee guida da seguire per una ristrutturazione delle 5 Zes che consenta di ridurre significativamente l’impatto della loro produzione sugli ecosistemi. L’invito rivolto dagli estensori al governo di Pechino è quello di fare in modo che queste indicazioni siano incluse nel 12esimo Piano quinquennale di sviluppo della Cina (che riguarderà il periodo dal 2011 al 2015 e dovrebbe essere discusso a marzo) e adottate il prima possibile dalle autorità locali. Segno evidente che, all’interno del Paese in vetta alla classifica delle produzione di CO2, va emergendo con sempre maggior forza la posizione di chi ritiene che le esigenze collegate allo sviluppo debbano essere compenetrate con quelle di tutela del patrimonio ambientale e naturale.
Scheda: Cosa è una Zona Economica Speciale
Una Zona economica speciale è una regione geografica dotata di una legislazione economica differente dalla quella in vigore nel resto del Paese, studiata appositamente per attrarre investimenti stranieri e garantire un regime fiscale agevolato alle imprese che operano al suo interno.
L’istituzione delle prime Zes nel Paese della Grande Muraglia è iniziata a seguito della politica di riforme economiche (la cosiddetta “politica della porta aperta”) intrapresa in Cina a decorrere dal 1978. Le prime tre sono state create nelle municipalità di Shenzhen, Zhuhai e Shantou, nella provincia meridionale del Guangdong, nel 1979. Nel 1984 si è dato vita alle Open coastal cities (tra cui Dailan, Tianjin, Shanghai, Guangzhou e Beihai) e a diverse Open coastal regions, anch’esse dotate di una normativa particolare mirata allo sviluppo dell’industria e del commercio. Dal 1985 la politica di apertura agli investimenti esteri è stata estesa anche ai delta dei fiumi Yangtze e Pearl, al triangolo Xiamen-Zhangzhou-Quanzhou, nella parte meridionale della Provincia del Fujian, alle penisole di Shandong e di Liaodong, Hebei e Guangxi, fino a comprendere l’intera fascia costiera. Nel 1990 sono state aperte agli investimenti esteri la nuova zona di Pudong, a Shanghai, e altre città nella pianura del fiume Yangtze.
Nello stesso anno è stata costituita la prima e più vasta zona franca della Cina, la Waigaoqiao free trade zone, situata all’interno della cosiddetta Pudong Area, a circa 20 chilometri da Shanghai. Gestita da un organismo autonomo, la regione beneficia di particolari agevolazioni, ancora più vantaggiose di quelle in vigore nelle altre free trade zone. Negli ultimi due decenni tutte queste zone hanno avuto il doppio ruolo di “porte” per lo sviluppo di un’economia orientata allo scambio con l’estero, attraverso l’esportazione di prodotti e l’importazione di tecnologie avanzate, e di “motori” per l’accelerazione dello sviluppo economico dell’intero Paese.
*Paolo Tosatti -Laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti.