Il sistema democratico taiwanese ha fatto passi da gigante. Ma conserva ancora qualche problema irrisolto, dalla mancata abolizione della pena di morte alla condizione dei foreign workers. Un estratto dal nostro ultimo e-book dedicato a Taiwan
Nel 2016, poco dopo il suo insediamento, la presidente Tsai Ing-wen ha presentato per la prima volta scuse ufficiali alle popolazioni indigene per le sofferenze subite in passato. Due anni dopo, nel 2018, è stata istituita la Transitional Justice Commission per indagare e portare alla luce le violazioni dei diritti umani perpetrate durante il periodo di legge marziale del Terrore Bianco. Se è indubbio che l’amministrazione Tsai ha compiuto passi avanti per affrontare gli scheletri nell’armadio del passato e del presente di Taiwan, alcune questioni sociali sono lungi dall’essere risolte. O come ha dichiarato di recente l’avvocato specializzato in diritti umani Manfred Nowak, “non sono state affrontate in modo adeguato”.
Quest’anno, in un panel organizzato dalle Nazioni Unite, Nowak e altri otto esperti hanno condotto una revisione indipendente per accertare il grado di conformità di Taiwan agli standard internazionali sui diritti umani. E, quindi, la sua corretta attuazione di due convenzioni chiave ratificate nel 2009 come materia di diritto interno: la International Covenant on Political and Civil Rights (ICCPR) e la International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (ICESCR).
Nei cinque giorni di lavoro dello scorso maggio, i membri del gruppo sono giunti a una conclusione che poco si discosta dai risultati emersi nelle revisioni del 2012 e del 2017: la Repubblica di Cina è brava ma non si applica del tutto. Il panel si è detto “estremamente deluso” per il fallimento dell’amministrazione attuale nell’affrontare questioni sensibili come tortura e pena di morte. Nella prima metà del 2021, di fatto, lo Yuan esecutivo aveva approvato un disegno di legge per conformarsi al quadro normativo anti-tortura delle Nazioni Unite (lo UNCAT, UN Convention against Torture and other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment), in attesa dell’avallo dello Yuan legislativo. Ma a un anno dall’approvazione da parte dell’esecutivo il reato di tortura non è stato ancora codificato nel Codice penale.
La pena di morte, inoltre, è ancora in vigore a Taiwan. Se dal 2000 le esecuzioni capitali sono nettamente diminuite, ad oggi ci sono 38 persone nel braccio della morte e l’ultima esecuzione risale al 2020. Una pratica commentata da Nowak come “crudele, disumana e degradante”, che ostacola fortemente il potenziale di Taiwan di diventare il portabandiera asiatico nell’applicazione dei diritti umani internazionali.
Ai commenti critici del panel è seguita la celere risposta del portavoce dello Yuan esecutivo Lo Ping-cheng, che ha sottolineato che gli sforzi per l’abolizione sono un obiettivo del governo. Ma, stando alle sue parole, la società taiwanese non ha raggiunto un consenso sulla questione. Pare tuttavia che l’opinione pubblica non sia molto ferrata sul tema. Da quanto emerso da una ricerca condotta lo scorso anno dalla ong londinese The Death Penalty Project e da The Taiwan Alliance to End the Death Penalty (TAEDP), solo quattro tra i duemila intervistati conoscevano la risposta a quattro domande inerenti alla pena di morte. Oltre la metà di loro non sapeva rispondere a nessuna di esse. Uno studio successivo ha riportato anche che il 61% dei deputati taiwanesi è favorevole all’abolizione della pena capitale.
La poca consapevolezza e il poco coinvolgimento della società civile sono spesso evidenziati da associazioni e attivisti quando si menzionano le difficoltà generate dalle politiche occupazionali taiwanesi che riguardano i foreign workers, i lavoratori migranti non specializzati. Una questione di cui si discute da anni. Se la presidente Tsai ha espresso in più occasioni la volontà di “globalizzare la forza lavoro di Taiwan”, sembra tavolta che ci si riferisca soltanto alla forza lavoro specializzata, i foreign professionals. PER CONTINUARE A LEGGERE SCOPRI COME OTTENERE L’EBOOK
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.