La palma del più deciso e autoritario in Asia va senza dubbio al presidente filippino Rodrigo Duterte. Uno che non le manda a dire: spara.
Il 1 ° di aprile – e non era uno scherzo – ha detto in tv che gli «ordini alla polizia e ai militari sono che, se ci sono problemi o la tua vita è in pericolo, bisogna uccidere». «Capisci? – ha aggiunto – Morto. Invece di causare problemi, ti mando al cimitero».
La sparata del presidente killer ha sollevato le critiche di Amnesty International ma Duterte non è un caso isolato. La svolta autoritaria, in regimi dove esiste una fragile democrazia e parlamenti spesso ostaggio dei militari, fa paventare il rischio che il virus porti indietro l’orologio della storia.
In Asia orientale – ma l’India di questi tempi non è da meno – il dirigismo autoritario è una vecchia tradizione che si coniuga con l’apparato militare. E non solo nei Paesi a partito unico.
In Thailandia la dichiarazione dello stato di emergenza del 24 marzo ha rimesso nelle mani del primo ministro generale Prayut più poteri di quanti già non avesse. E se è esagerato ritenere che la casta in divisa, in parte ridimensionata dal recente voto popolare, si stia riprendendo tutti i poteri che aveva quando era una una giunta, l’eredità potrebbe essere pesante. A garantire il lockdown dalle 22 alle 4 ci pensa la polizia ma proprio ieri il capo della Royal Thai Army ha ordinato ai suoi soldati di aiutare gli amministratori locali e gli agenti a far rispettare il coprifuoco nazionale. Non sono certo i carri armati per le strade ma cosa resterà dopo l’emergenza? E chi decide sulla censura delle fake news, altra misura imposta dall’esecutivo?
Problemi molto simili anche nel vicino Myanmar dove un precedente comitato di emergenza civile è stato sorpassato il 30 marzo da un nuovo organismo civile-militare che è più militare che civile. A capo c’è il vicepresidente Myint Swe – un generale che non gode di ottima fama – il numero 3 delle forze armate generale Mya Tun Ooe e i rappresentanti di Difesa, Interni e Confini, tutti dicasteri in mano all’esercito. Paradossalmente non ci sono né il ministro della Sanità né la Lady Aung San Suu Kyi. Che finora però non sembra voler contestare queste decisioni. Forse la macchina organizzativa dei militari, ancora forte oltreché di soldati di una rete capillare di informatori, dà affidamento anche se è gravida di rischi. Due principalmente: censura e guerra.
In questi giorni – dopo che l’Arakan Army – un esercito ribelle attivo nello Stato del Rakhine – è stato inscritto tra i gruppi terroristici, sono stati arrestati giornalisti che ne avevano intervistato i rappresentanti. E molti siti sono stati oscurati. Una manovra in grande stile rivolta soprattutto contro website ritenuti pornografici ma che ha incluso però anche pagine di notizie.
Poi c’è il capitolo guerra: diversi gruppi in lotta col governo centrale – tra cui anche l’Arakan Army – hanno chiesto una tregua per gestire al meglio la crisi del Covid-19 che per ora conta pochi casi ma che si teme possa esplodere in un Paese dalla fragilissima struttura sanitaria. I militari hanno respinto al mittente l’offerta tanto che diverse ambasciate e l’Unione europea hanno sottoscritto un appello comune, sull’onda di quanto fatto dal segretario generale dell’Onu, perché si scelga il dialogo anziché le bombe. Appello per ora ignorato.
La Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi viene tra l’altro da una battaglia parlamentare appena persa per tentare di limitare il potere militare cui la Costituzione consente praticamente un diritto di veto appena esercitato per evitare di emendare la Carta suprema.
Questa infatti riserva il 25 percento dei seggi in Parlamento all’esercito e, ai sensi dell’articolo 436 della Carta (riformata anni fa dai militari), le modifiche proposte al sommo statuto richiedono l’approvazione di oltre il 75 percento dei legislatori, il che significa che nessun cambiamento è possibile senza l’approvazione dei militari. La Lega ha il 58 percento dei seggi in parlamento, i partiti delle minoranze etniche – che sarebbero favorevoli – l’11 percento. Ma senza quel 25% non si va avanti. E adesso c’è anche il rischio che si torni indietro
Theo Guzman
[Pubblicato su il manifesto]