Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi è una galleria di incontri con i maggiori scrittori della Repubblica Popolare cinese che racconta, attraverso le loro voci e con un taglio giornalistico, un Paese in trasformazione. Le interviste sono tutte raccolte tra il 2008 e il 2012, gli anni in cui Marco Del Corona era corrispondente in Cina per il Corriere della Sera. China Files vi regala l’intervista ad Acheng (per gentile concessione della casa editrici O barra O).
Le storie di Acheng si sono arenate qui, in una casa piena di oggetti, che gira con le sue stanze bianche intorno a un cortiletto a sua volta pieno di oggetti. Gli oggetti assediano Acheng, non le parole. “Desidero cose che nessuno vuole. Guardi questo. È un contenitore per cereali, dinastia Han. Quello che c’è dentro” apre il barattolo, prende con un cucchiaino un po’ di semi, li mette sul tavolo, “sono cereali che hanno duemila anni. Sono importanti. E guardi questa civetta, stesso periodo. Una bella combinazione: la civetta mangia i topi che mangiano i cereali…”
Sono gli oggetti che oggi raccontano storie ad Acheng, lui invece ha quasi smesso. Il re degli scacchi, che uscì in Cina “per puro caso” nel 1984, Il re degli alberi e Il re dei bambini lo resero famoso. Nel 1992 vinse un premio persino in Italia, il Nonino: i tre romanzi “avevano fatto di me uno scrittore. Io nascevo artista, e non mi abituai”. Pressione? Forse: perché “da uno che scrive libri ci si aspetta sempre nuove storie…”. Acheng oggi fa lo sceneggiatore, ma non va al cinema da dieci anni.
Ha un romanzo pronto, ma che non esce. “È lì da vent’anni, la censura non mi permette di pubblicarlo.” Un libro fantasma che si muove nella molto affollata solitudine di Acheng, dove anche il cognome viene taciuto: “Il mio cognome è Zhong. Ma non lo uso perché non voglio mercificare il nome dei miei antenati”. Acheng e basta, allora, e non Zhong Acheng. Altri autori cinesi aggirano la censura della Repubblica Popolare pubblicando a Taiwan. Due anni fa ci ho provato, alla fine ho rinunciato per evitare guai.
La sua trilogia dei re non ebbe gli stessi problemi.
Durante la Rivoluzione culturale la gente non aveva niente da leggere, quindi scrivevamo le cose che ci dicevamo l’un l’altro. Io buttavo giù diari e storie: i miei libri sono nati così. In Francia e in Italia sono piaciuti più che nei paesi anglosassoni. Mi hanno detto che il fotografo Henri Cartier Bresson prima di morire avesse Il re degli scacchi accanto al letto. Ci deve aver trovato qualcosa di buono.
E il romanzo fantasma?
Racconta la Rivoluzione culturale. Non è come Il re degli scacchi: si tratta di qualcosa di più aggressivo. In letteratura non è permesso toccare per davvero gli anni fra il 1966 e il 1976, la Rivoluzione culturale. Se proprio volessi pubblicarlo dovrei mutilarlo. E comunque, dopo quanto successo a Bo Xilai, potrebbe essere particolarmente complicato.
Non veder pubblicato il suo romanzo la addolora?
Mi lascia indifferente.
È un testo autobiografico?
Nessuno dei miei libri lo è. Mostrano la vita degli altri come io l’ho vista.
Che cosa rende impossibile la pubblicazione?
Scrivo di Mao Zedong. E poi racconto i giovani di allora, le Guardie rosse. A scuola, alle elementari, io sono stato compagno proprio di Bo Xilai. Stesso anno: lui prima sezione, io quarta. Nel libro descrivo che cosa facevano quelli come lui. Se il libro fosse uscito a Taiwan, qui sarebbero venuti a saperlo subito. L’economista Mao Yushi, per una prefazione a un volume su Mao Zedong, è stato attaccato fisicamente.
A lei non è mai capitato?
No, mai attacchi o minacce. I miei libri del passato erano piuttosto trattenuti. Ma con questo non potrei escludere che mi succeda qualcosa di simile.
Vede altri scrittori?
Frequento di più gli artisti.
Continua a scrivere, nonostante il romanzo bloccato da vent’anni nel cassetto?
Da vent’anni uso il computer. Il vantaggio è che posso scrivere qualcosa, salvarlo, archiviarlo, metterlo da parte senza completarlo. Ho fatto tante cose e tante ne ho dimenticate.
A questo punto il dubbio è legittimo: lei scrive per sé o per gli altri?
Scrivo quando ho voglia.
Lei è nato nell’aprile del 1949: ha quasi la stessa età della Repubblica Popolare, che è stata fondata nell’ottobre dello stesso anno. Qual è il momento più felice che ha vissuto?
Non ho avuto alcun momento felice. La nostra generazione è malata, divorata dall’ansia. Da quando nasci c’è sempre qualcuno, genitori o famiglia, che è coinvolto in qualche vicenda più grande. Qualcuno nei guai… basta vedere la storia di Bo Xilai. Non c’è differenza tra ora e gli anni della Rivoluzione culturale.
Che ricordi ha di Bo?
Ai compagni non piaceva molto. Era considerato un furbone. Si è perso nella sua ambizione, fin dai tempi della Rivoluzione culturale. Anche le Guardie rosse sono state una manifestazione dell’ambizione dei figli di funzionari e dirigenti di partito. Pensavano che se i padri avevano conquistato la nuova Cina, allora il Paese apparteneva a loro, che ne erano i figli. Tra i miei compagni di scuola c’erano anche i figli di Liu Shaoqi: il figlio Liu Yuan, le due figlie Tingting e Pingping.
Non ha mai vissuto all’estero?
Ho vissuto per più di dieci anni negli Stati Uniti. Stavo lì per avere una scrivania tranquilla. Non avevo molti contatti con la gente. Non ho grandi problemi a leggere l’inglese, ma nell’ascoltare sì. Sono lento nel capire le parole e a reagire.
Quindi lei ritiene che, essendo cinese, il suo posto sia essenzialmente qui…
Sì.
Lei fa lo sceneggiatore. Mai stato tentato dalla regia?
Ogni tanto mi chiedono di fare il regista. No, non ne sono capace. Non so gestire i rapporti fra le persone. Né sono orgoglioso di nessun film che ho scritto io. Di recente il regista franco-vietnamita Anh Hung Tran mi ha chiesto di preparare una sceneggiatura per lui. Ha già il mio testo. Per adesso non mi ha risposto.
Va al cinema? Da dove deriva il suo legame con il mondo cinematografico?
I miei genitori lavoravano nel cinema. Non metto piede in una sala da dieci anni ormai, mi limito a guardare dvd a casa. Quando prima accennava a vicende drammatiche di famiglia parlava della sua… Mio padre nel 1957 fu accusato di essere un elemento di destra. Avevo 8 anni. La famiglia dovette affrontare profondi cambiamenti. Lui fu spedito in un laogai, un campo di lavoro.
Quasi come il poeta Ai Qing, padre dell’artista dissidente Ai Weiwei…
Infatti. E io sono un ottimo amico di Ai Weiwei.
Che nel 2011 ha trascorso ottantuno giorni di detenzione segreta. Lei è più prudente di Ai?
Sono diverso. Lui crede nel suo attivismo. Io ho ancora tante cose da fare: non devo lasciarmi influenzare da ciò che non è arte.
Pensa che riuscirà, un giorno, a pubblicare il suo romanzo fantasma?
L’ex premier Wen Jiabao ha detto chiaro e tondo che bisogna fare piazza pulita delle scorie della Rivoluzione culturale.
Nell’ autunno del 2012 il congresso del Partito comunista ha cambiato la leadership. Continuerà la linea indicata da Wen?
Non lo so. Non siamo un Paese trasparente.
*Nato a Milano nel 1968, è vicecaporedattore del Corriere della Sera, per il quale ha visitato la Corea del Nord nel 2001. Ha pubblicato, tra l’altro, due diari di viaggio, Strade di bambù su Cina, Laos e Birmania (1999) e Cattedrali di cenere sulla Cambogia (2005). Corrispondente a Pechino dal 2008 al 2012, è attualmente vicecaporedattore delle pagine culturali del «Corriere della sera».