Un elemento del passato, lo sviluppo economico e l’inquinamento che ha comportato, e uno del futuro, la corsa tecnologica in atto da anni, hanno sostanzialmente obbligato la Cina a ripensare il proprio sviluppo urbano, affidandosi alle teorie relative alle smart city, centri urbani iper-digitalizzati e in grado di sviluppare al massimo l’«internet delle cose» e permettere ogni tipo di controllo: tanto sui livelli energetici di consumo delle città, quanto sul comportamento degli abitanti.
Lo scopo del governo cinese è quello di consegnare alla propria popolazione città sicure da due punti di vista: della sostenibilità ambientale, in nome del nuovo mantra della «civiltà ecologica» (argomento di grandi discussioni in questo momento in Cina, unitamente alle teorie sull’Antropocene), e della sicurezza urbana.
L’argomento è talmente importante che in Cina se ne è cominciato a parlare dagli anni ’90, quando il progetto di sviluppo urbano prevedeva gli «Eight Gold Plan» fino ad arrivare alla partenza ufficiale dei progetti di smart city in Cina, nel 2011.
E ora Xi Jinping è andato oltre: servono e si sta lavorando a 500 smart city. Nel documento sul piano di costruzione delle smart city di Shanghai 2011-2013 si legge che «Lo sviluppo innovativo e di trasformazione richiede un sistema di infrastrutture informatiche di livello internazionale, un efficace sistema di informazione e intelligence, un settore IT di prossima generazione e un sistema di sicurezza delle informazioni regionale affidabile e affidabile. Per dare pieno gioco al ruolo del mercato, e seguendo le indicazioni del governo, una città intelligente deve avere le caratteristiche chiave della digitalizzazione, della rete e dell’intelligence per innalzare il livello di modernizzazione a tutto tondo della città e consentire ai cittadini di condividere i benefici».
Questo approccio, confermato anche da diversi documenti governativi prodotti dal 2014 in avanti, punta dunque alla costruzione di città di media grandezza iper connesse e capaci di sfruttare le nuove tecnologie per il controllo delle problematiche ambientali, per un controllo totale del traffico e la capacità di modificarlo al meglio per evitare ingorghi e per un controllo totale della popolazione giustificato dalla necessità di eradicare la delinquenza nelle città cinesi (quest’ultimo elemento è tenuto in gran conto da parte della popolazione).
Naturalmente tutto questo ha un impatto, o potrebbe averlo, su questioni legate alla privacy dei cittadini. La ricercatrice Fan Yang, su Asia and Pacific Policy Forum, ha scritto che «rendere le città più sicure è uno dei fattori chiave delle pratiche di smart city. A Longgang, un distretto di Shenzhen che era noto per i suoi alti tassi di criminalità, casi di furto e rapina sono crollati di oltre la metà grazie allo spiegamento di 7.000 nuove telecamere ad alta definizione – dotate di software di intelligenza artificiale – in tutto il distretto».
Tra questi benefici presupposti, si alza una preoccupazione: «come possono i cittadini proteggere la loro privacy quando i sensori raccolgono dati su tutto ciò che li circonda? A marzo, la dichiarazione del Ceo di Baidu Robin Li sulla protezione dei dati e la privacy dei cittadini cinesi ha suscitato un allarme: “I cinesi sono relativamente più aperti e meno sensibili sull’uso dei dati personali … Se sono in grado di scambiare la privacy per sicurezza, praticità o efficienza, in molti casi sono disposti a farlo”, ha dichiarato… ».
Conta molto la recente legge sulla cybersicurezza che – pur proteggendo i dati dei cittadini – non chiarisce il ruolo del governo né cosa accada a quei dati raccolti dall’incrocio di diverse tecnologie. E TechCrunch di recente ha mostrato proprio il potenziale punto debole di questi processi di controllo delle smart city cinesi. Il sito di tecnologia ha ricevuto dei leak da un database lasciato incustodito, da Alibaba, nel quale si trovavano dati personali derivanti da riconoscimenti facciali. Il database «era di Elasticsearch, memorizzava gigabyte di dati, tra cui scansioni di riconoscimento facciale su centinaia di persone per diversi mesi. I dati sono stati ospitati dal gigante tecnologico cinese Alibaba».
Dai dati emerge una capacità di seguire in modo pervasivo gli spostamenti (in questo caso si trattava di persone «registrate» nei presi di Liangmaqiao, la via delle ambasciate a Pechino). Siamo di fronte a problematiche che rimarranno attuali da qui allo sviluppo completo dei progetti cinesi che, intanto, si stanno finalizzando in quello che dovrebbe essere il «progetto dei progetti».
Secondo il Brookings Institute si tratta un «Brave New World»: è l’idea che Xi Jinping vuole raggiungere e ottenere a ogni costo, una mega smart city a Xiong’an, cento chilometri circa da Pechino.
Due milioni e mezzo di abitanti per un’area che – una volta ripulita del problema dei problemi, ovvero essere stesa su una superficie inquinata come poche al mondo – dovrebbe diventare il faro, la guida, l’esempio per tutta l’Asia di cosa si intenda per «smart city». In Cina non si parla d’altro: uomini d’affari, sviluppatori di applicazioni, ingegneri impegnati nell’Intelligenza artificiale, funzionari del governo. Tutti a citare Xiong’an come il futuro «crack» cinese; alcuni poi raccontano di come ci sia stata una corsa a comprare case, future case, armati di una certezza implacabile: se lo vuole Xi Jinping si farà. Lo sanno anche nei pressi delle varie commissioni del governo che si occupano di pianificazione urbana: l’ufficio di uno di loro è in un edificio che sembra uscito direttamente dall’Unione sovietica, forse frutto di quell’amicizia che poi si risolse in una rivalità solo di recente eliminata dai rapporti tra Cina e Russia.
«Il problema, viene raccontato, è che le indicazioni che arrivano dall’alto riguardano solo tecnologie e controllo, sicurezza e mobilità». Cosa manca? L’arte, la cultura, il sogno, l’esperienza: Xiong’an, come tante altre «nuove» città cinesi rischia il consueto destino, spazio preciso, pulito, organizzato ma disabitato.
O se abitato, come sarà se mai il progetto diventerà realtà? Il funzionario – mentre spiega la sua idea, al piano terra dell’edificio, in un piccolo bar con le finestre sulla strada – manda slide e immagini e suoi interventi a conferenze via WeChat. La sua idea? Animare la futura smart city con inserti, hotspot di natura artistica, capaci di regalare interazione e informazioni e di lasciare presagire un aggancio con il resto del paese e del mondo attraverso quello che oggi, in Cina, a tratti pare un feticcio: l’eredità culturale. Ma non sarà semplice, per diversi motivi.
Il primo dubbio riguarda proprio Xiong’an: si farà? Secondo il rapporto del Brookings Institute, intanto, «situato a circa 100 chilometri a sud-ovest di Pechino, Xiong’an ospiterà alcune delle istituzioni e delle aziende che attualmente lottano per trovare spazio nella capitale affollata. Secondo uno studio del 2017 di Morgan Stanley, Xiong’an attirerà 380 miliardi di dollari di investimenti» che tradotti in termini comprensibili, significa «tredici volte quanto che la Cina ha speso per la costruzione della Diga delle Tre Gole».
Lo sviluppo di Xiong’an è di fondamentale importanza «in quanto la Cina attraversa un periodo di transizione». Uno dei problemi dei quali Xiong’an dovrebbe essere la soluzione ha a che fare con le nuove forme che ha preso la società cinese: «questa nuova area si propone di essere innovativa, aiutando la Cina a spostarsi in settori ad alto valore aggiunto e a sfuggire alla trappola del reddito medio». Partiamo allora dal primo problema: l’idea è mastodontica (come piace ai cinesi), ma sulla fattibilità pesa come un macigno un particolare: «La Cina settentrionale è stata a lungo l’equivalente della Rust Belt americana». Sette delle dieci città più inquinate della Cina si trovano nelle vicinanze della provincia dell’ Hebei.
E non è tutto qui, perché Xiong’an è situata «in una bassa palude». Nonostante queste immani difficoltà, Xiong’an può offrire un percorso alternativo «sia per la Cina settentrionale che per la nazione nel suo complesso», sempre si risolva il problema prima di gettare le basi di questo nuovo «sogno» che il presidente cinese Xi Jinping ha fomentato nelle menti dei suoi compatrioti. Proprio Xi «ha svolto un ruolo fondamentale nel lancio della nuova area di Xiong’an. Proprio come Shenzhen e Pudong sono considerati gemme dell’era Deng, Xi aspira a vedere il suo nome associato a un nuovo miracolo urbano. Buone notizie da Xiong’an potrebbero migliorare direttamente il prestigio personale di Xi come pianificatore lungimirante. Pertanto, Xiong’an può servire da indicatore pubblico dell’efficacia delle politiche dell’amministrazione Xi».
Mica poco. Anche perché non tutto sembra girare al meglio. Nel gennaio del 2019 il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong da qualche tempo rilevato da Alibaba, titolava «Xi Jinping visita la nuova area di Xiong’an in segno di impazienza per la mancanza di progressi nel progetto della città del futuro». Molti saranno scattati sulla sedia, perché Xiong’an dovrebbe essere la punta di avanzata di molto altro che bolle in pentola.
Tutto è cominciato nel 2017, quando arrivò il primo annuncio che si riferiva a Xiong’an come a una «strategia per un nuovo millennio» e a una «area in grado di dimostrare un modello urbano sostenibile, moderno e innovativo».
Due settimane dopo, l’agenzia di stato Xinhua comunicava che Xiong’an «avrebbe mirato ad alleviare le disparità nello sviluppo regionale della Cina». Nel giugno 2017, «Xi Jinping ha presieduto una riunione del Politburo Standing Committee sull’urbanistica di Pechino. Ha affermato che mentre Pechino dovrebbe rimanere il centro della politica nazionale, della cultura, degli scambi internazionali e dell’innovazione scientifica, tutte le altre funzioni non capitali dovrebbero essere spostate altrove, in altri luoghi come Xiong’an. Nel frattempo, Xi ha promosso un numero di funzionari esperti nella regione. In particolare, Xu Qin, sindaco di Shenzhen dal 2010 al 2017, è stato paracadutato come nuovo governatore dell’Hebei. Chen Gang, un tecnocrate che ha supervisionato le industrie high-tech di Pechino, è diventato il primo capo della Xiong’an New Area».
In generale la Cina punta a 500 nuove smart city nell’immediato futuro, capaci di raccogliere al proprio interno tutto quanto rappresenta la nuova potenza tecnologica del paese. Si tratta del risultato di una urbanizzazione lenta e letale: nel 1949 il tasso di urbanizzazione della Cina era al 10,64 per cento. La Cina di Mao: rurale, povera, ma tesa a rafforzare quella industriosità dei cinesi che sarebbe poi diventate fondamentale nell’era denghiana. Nel 1992 il tasso arriva al 27 per cento, nel 2001 al 37. Nel 2011 il censimento, il primo organizzato dal Partito per avere un risultato credibile, sanciva la trasformazione avvenuta: la Cina era diventato un paese a maggioranza urbana.
Tanto che nel 2016 il tasso ha superato il 56 per cento ed è previsto che arrivi all’80 per cento entro il 2050 circa (quando la popolazione mondiale potrebbe arrivare addirittura a 10 miliardi di abitanti rendendo piuttosto complicato il futuro del nostro pianeta).
Questa immane trasformazione è stata coadiuvata nel tempo dalla spinta all’urbanizzazione da parte del partito comunista: prima è toccato alle grandi città, poi via via a quelle medie. Ora si tratta di razionalizzare e mettere a frutto l’immane progresso tecnologico del paese. Cosa saranno infatti queste smart city?
Saranno precise, pulite,collegate con il 5G e protagoniste dell’internet delle cose. Avranno una mobilità sotto controllo costante: mezzi pubblici elettrici e algoritmi pronti a organizzare al meglio il traffico, che sarà poco, limitato e che probabilmente vedrà protagoniste le auto, o sicuramente i mezzi pubblici, a guida autonoma. Secondo un report della Deloitte pubblicato nel 2018, «Negli ultimi anni, il numero di città pilota intelligenti in Cina ha mostrato una crescita lineare. La maggior parte delle città e le regioni scelte come progetti pilota di «città intelligenti» si trovano nei raggruppamenti urbani nella zona costiera all’interno delle aree del Mar Giallo e del Mare Bohai e del Delta del fiume Yangtze.
Di smart city si è parlato molto anche al Forum Boao svoltosi nell’aprile del 2019: secondo Gu Qiang, capo dell’Istituto di ricerca industriale che fa capo alla società di sviluppo immobiliare China Fortune Land Development (Cfld) «al fine di promuovere lo sviluppo di alta qualità delle sue aree metropolitane, la Cina ha bisogno di ottimizzare la costruzione di micro-centri e città nodo. Le aree metropolitane della Cina hanno visto uno sviluppo significativo negli ultimi anni.
La crescita della regione Pechino-Tientsin-Hebei, l’integrazione dell’area del Delta del Fiume Azzurro e la costruzione della Grande Baia Guangdong-Hong Kong-Macao sono tutti esempi chiave». Gu ha poi sottolineato – come riportato da Agenzia Nova – che «a causa dell’incremento demografico nelle aree metropolitane cinesi, i micro-centri e le città nodo sono diventati parti critiche di queste realtà. Dopo decenni di crescita economica, le aree metropolitane della Cina stanno prendendo forma in termini di aumento della popolazione, occupazione, spostamenti, espansione spaziale e connessioni industriali».
L’area metropolitana di Pechino ospita oltre 360 mila persone che lavorano nella capitale. Nell’area metropolitana di Shanghai ci sono cinque città nodo con oltre un milione di abitanti, dodici città comprendenti da 200 mila a un milione di abitanti e dieci con 50-200 mila abitanti. «Piuttosto che pianificare il sistema urbano in accordo con la regione amministrativa locale, le aree metropolitane dovrebbero essere pianificate nel loro complesso (…) Al fine di promuovere lo sviluppo di alta qualità delle aree metropolitane, dobbiamo prima integrare i micro-centri e le città nodo nella nostra pianificazione dell’area metropolitana», ha osservato Gu.
Naturalmente, trattandosi di Cina, non si possono infine dimenticare alcune particolarità di queste eventuali smart city: tutto il recente sviluppo cinese in fatto di videosorveglianza e gestione dei dati dei cittadini sarà alla base del «controllo» delle città intelligenti, dove per «intelligenti» ci si riferisce per lo più alle nuove tecniche pervasive del Panopticon cinese che ha raggiunto ormai risultati rilevanti.
L’approccio ingegneristico «a sfide come il mantenimento della stabilità sociale», secondo Roger Creemers, studioso di diritto cinese e autore di un paper sul sistema dei crediti sociali, significa, «non solo comprendere la realtà o prevedere la realtà, ma controllare la realtà».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.