«Il nostro piano quinquennale di sviluppo economico è stato molto al di sotto degli obiettivi che ci eravamo posti in quasi tutti i settori». Con parole, piuttosto insolite per i leader nordcoreani, Kim Jong-un a inizio gennaio ha aperto i lavori del Congresso del partito dei lavoratori, l’evento politico più importante in Corea del Nord. Si tratta di parole straordinariamente realistiche perché il paese, da mesi completamente sigillato ancora più del solito all’esterno a causa del timore di contagi da coronavirus, ha dovuto affrontare una delle crisi economiche più gravi della sua storia recente; una crisi paragonata alla carestia patita oltre 20 anni fa, che provocò 500mila vittime.
OGGI SI PARLA DI ALMENO 10 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione, alle prese con carenza di cibo. Nella capitale Pyongyang, il valore del won nordcoreano è aumentato di circa il 17,5 per cento e il 15,2 per cento rispetto al dollaro e allo yuan cinese tra settembre e novembre 2020.
Il «fallimento» registrato da Kim è di natura puramente economica: il «doppio binario», la sua impostazione politica destinata a fare progredire insieme il comparto militare e quello economico, non ha funzionato a causa di molti fattori, primo fra tutti la pandemia.
Ma i segnali di difficoltà dell’economia nord coreana si registravano già nel periodo pre pandemico, in particolare dopo le nuove sanzioni delle Nazioni Unite e il blocco di quel processo di avvicinamento a Corea del Sud e Stati Uniti, culminato nello storico incontro tra Kim e Trump a Singapore nel 2018.
L’ULTIMO ANNO però ha devastato i piani di Kim: solo 12 mesi fa nel suo messaggio di capodanno il «brillante leader» si era detto certo che il suo paese se la sarebbe cavata nonostante le sanzioni, costruendo un’economia «autosufficiente» (pur segnalando la necessità di «stringere la cinghia») e soprattutto aveva minacciato di violare moratorie e promesse diplomatiche, rafforzando il proprio programma missilistico.
All’epoca aveva dichiarato che Pyongyang possedeva una «nuova arma strategica», lasciando intendere «azioni scioccanti». Tutto, però, è andato in fumo in pochi mesi: la pandemia ha costretto il paese alla chiusura dei confini con la Cina, senza la quale il regime di Kim non reggerebbe un giorno, poi un’alluvione ha provocato danni ingenti e infine l’economia nel 2020 è letteralmente crollata.
Il colpo più pesante sarebbe arrivato dalla drastica riduzione degli scambi con la Cina, il suo principale alleato e responsabile di circa il 90% del commercio della Corea del Nord. La pandemia ha poi provocato uno stop alle fonti di valuta estera del regime, quali turismo, le esportazioni di manodopera e i ristoranti all’estero. In crisi anche quei barlumi di «capitalismo» presenti da tempo nel paese; in Corea del Nord, infatti, a causa delle recessioni dovute ai problemi diplomatici e di isolamento, da tempo vivono e operano mercati informali e imprese private che compensano le perdite economiche dello Stato.
Ma come segnalato da NkNews, «hanno lottato per colmare il divario. Le carenze stanno aumentando, con i prezzi di frutta e verdura in forte aumento. Anche i supermercati di lusso di Pyongyang , hanno finito lo zucchero, l’olio da cucina e il dentifricio».
LA COREA DEL NORD, spesso definita «regno eremita», da tempo ha sviluppato una serie di legami con i mercati globali, producendo una specie di sistema misto, tra intervento statale e imprese private di ispirazione cinese. Queste ultime hanno spesso risollevato la sorte dei cittadini, così come talvolta sono state stroncate a seconda dei venti politici che arrivavano da Pyongyang. I principali attori internazionali che permettono alla Corea del Nord di sviluppare collegamenti esterni sono Cina e Russia.
Il governo nordcoreano raccoglierebbe oltre 500 milioni di dollari all’anno da questi lavoratori, diventati, in pratica, la principale fonte di valuta estera. La pandemia ha messo questo «patrimonio» in una situazione complicata. Come riportato dall’Asahi Shimbun, quotidiano giapponese, «l’epidemia che ha colpito la Cina ha spinto la Corea del Nord a chiudere i suoi confini a fine gennaio. Il regime ha fermato tutti i voli e i treni in partenza dalla Cina e dalla Russia e gli arrivi all’estero sono stati vietati.
QUESTE MISURE hanno lasciato i restanti lavoratori migranti nordcoreani in Cina senza possibilità di tornare a casa. Sebbene i loro visti di lavoro temporanei siano scaduti, Pechino sta tacitamente permettendo ai lavoratori di restare. Il governo cinese insiste che sta applicando le risoluzioni delle Nazioni Unite, ma la realtà suggerisce il contrario». Per valutare quale potrà essere il futuro della Corea del Nord, sarà necessario comprendere il quadro geopolitico che andrà componendosi con la presidenza Biden, i suoi rapporti con la Cina e con la Corea del Sud in particolare.
A questo proposito non ha utilizzato i toni pacati con cui ha descritto le difficoltà economiche, anzi. Il suo piano sembra riportare all’indietro l’orologio della storia: provocare Washington nella speranza di garantire il suo potere e la possibilità di continuare a rendersi necessario alla Cina.
INNANZITUTTO KIM ha specificato che gli Usa sono «il più grande nemico» e che «le nostre attività politiche estere dovrebbero essere focalizzate e reindirizzate a sottomettere gli Usa, il nostro più grande nemico e principale ostacolo al nostro sviluppo innovativo». Ha poi specificato che «La chiave per stabilire nuove relazioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti è se gli Stati Uniti ritirano la loro politica ostile».
Non sembrano promettere un futuro migliore neanche le relazioni tra le due Coree: Kim ha infatti affermato che le relazioni intercoreane sarebbero «sull’orlo del disastro». La prospettiva dunque è quella di una nuova situazione congelata, con probabili provocazioni nord coreane tese a guadagnarsi la fiducia della Cina, con la quale si potrebbe assistere a un nuovo avvicinamento considerando anche quanto emerso a livello politico dal congresso del partito dei lavoratori: stando a quel poco che è trapelato dai media nazionali, si può infatti intuire una prossima spinta verso la centralizzazione e un controllo ancora più rigoroso sulle imprese private (proprio come sta avvenendo in Cina).
Come si legge nel rapporto diramato dai media nazionali, «è necessario sviluppare il commercio statale, preservare la natura socialista della ristorazione pubblica, in modo che assolva al suo ruolo di sostegno al benessere della popolazione». Secondo alcuni analisti, proprio la pandemia avrebbe fatto «il gioco» di Kim e sarebbe stata utilizzata per riportare sotto il controllo dello Stato anche attività inserite in meccanismi di mercato e precedentemente «tollerate».
A questo punto, forse, l’altro grande centralizzatore d’Asia, Xi Jinping, potrebbe apprezzare lo sforzo.
In generale dal Congresso è emersa una nuova svolta da parte di Kim, il cui primo periodo di «regno» era parso più propenso a una sorta di liberalizzazione «con caratteristiche coreane». Pandemia, alluvioni e un probabile nuovo scenario geopolitico asiatico sembrano aver convinto il dittatore coreano a tornare indietro, sulle orme dei suoi predecessori.
[il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.