In Cina lo chiamano Yarlung Zangbo, in India Brahmaputra. È il fiume della discordia tra Pechino e Nuova Delhi, i due giganti asiatici impegnati in annosi contenziosi territoriali lungo il poroso confine che divide Tibet e Xinjiang dalle regioni indiane dell’Arunachal Pradesh e dell’Aksai Chin. Sgorga dal Tibet e attraversa India e Bangladesh percorrendo oltre 2.900 km tra ghiacciai, canyon e vallate lussureggianti. All’estero è noto per essere il corso d’acqua più alto del mondo, ma per le popolazioni locali, prevalentemente agricole, il fiume è soprattutto un’imprescindibile fonte di sostentamento. Così, quando alcuni giorni fa il colosso delle rinnovabili Power Construction Corporation of China ha annunciato la costruzione sul tratto cinese di una mega diga “senza precedenti nella storia” la notizia ha suscitato immediate preoccupazioni nei due Paesi a valle. Tre volte più potente della famigerata Diga delle Tre Gole ̶ realizzata sullo Yangtze nel 2006 nonostante l’opposizione degli ambientalisti ̶ il nuovo impianto si colloca all’interno dell’ambizioso pacchetto di investimenti preannunciato dal Partito comunista per il prossimo piano quinquennale. Obiettivo: sostenere la crescita economica perseguendo il taglio delle emissioni. Ma se per Pechino la nuova diga (una delle otto programmate per i prossimi dieci anni) risponde a “esigenze ambientali, di sicurezza nazionale, e cooperazione internazionale”, in India, dove la popolarità del Dragone è già ai minimi storici, l’annuncio è stato accolto con diffidenza. Soprattutto considerata la collocazione: Medog, l’ultima contea tibetana dove lo Yarlung Zangbo forma un gomito prima di gettarsi nelle aree contese dell’Arunachal Pradesh e cambiare nome […]
In Cina, dove fino al secolo scorso l’agricoltura è rimasta la prima fonte di sussistenza, la costruzione di dighe e canali vanta una storia millenaria. Si fa risalire al leggendario sovrano Yu il Grande, ed è rimasta una costante durante tutto il periodo imperale per scongiurare carestie e rivolte contadine. Con l’avvento della leadership comunista, alle grandi opere idrauliche (si pensi al ciclopico progetto di diversione delle acque South-North Water Transfer Project vagheggiato da Mao Zedong e avviato nel 2002 per dissetare il Nord del Paese industriale grazie a una serie di canali e acquedotti) è stato affiancato l’utilizzo dell’ingegneria ambientale. Per sei decenni, il Partito/Stato ha schierato aerei militari e cannoni antiaerei per inseminare le nuvole con ioduro d’argento e azoto liquido così da addensare le goccioline d’acqua fino a trasformarle in neve e pioggia. Mentre la tecnologia è stata utilizzata principalmente a livello nazionale per alleviare la siccità o schiarire il cielo in vista di eventi celebrativi, come nel caso delle dighe anche le nuove tecniche di modificazione del clima hanno finito per creare apprensione al di là della Muraglia [SEGUE SU L’ATLANTE]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.