Nel dicembre 1978 Deng Xiaoping avviava le aperture e le riforme della Cina, battezzando l’inizio di un periodo di trasformazioni storiche colossali del paese, qualcosa che siamo sempre stati abituati a misurare – per altri territori – nell’arco di secoli. Dobbiamo ricordare, innanzitutto, cos’era la Cina nel 1978: un paese per lo più rurale e povero, uscito dilaniato dagli eccessi della rivoluzione culturale. Allo stesso modo, però, bisogna pure sottolineare le «basi» che il periodo maoista aveva posto per una trasformazione così clamorosa del paese.
IN OCCIDENTE SI TENDE spesso a far rientrare la Cina nella modernità proprio grazie alle riforme denghiane, come se prima il paese fosse ancora sprofondato nel medio evo. Insomma, si associa la modernità al capitalismo. Su questo non pochi autori hanno tenuto a precisare alcuni aspetti. Uno di loro è sicuramente Giovanni Arrighi. In Capitalismo e (dis)ordine mondiale (a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, 2010), Arrighi scriveva che le riforme denghiane si sarebbero realizzate proprio grazie a due fattori: la «rivoluzione industriosa» dell’Ottocento, termine preso in prestito da Kaoru Sugihara, e la rivoluzione socialista.
La «rivoluzione industriosa» consentì alle istituzioni di assorbire il lavoro delle unità familiari, un tratto ancora molto comune in Cina (e nei cinesi all’estero), all’interno di attività che contrariamente alla rivoluzione industriale europea, premiavano la molteplicità dei ruoli, anziché la specializzazione: le capacità manageriali, con un generale background di abilità tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare.
Il secondo punto è la rivoluzione socialista che, secondo Arrighi, ha permesso a questa eredità di non perdersi, ma anzi di essere rivitalizzata e inserita nella narrazione rivoluzionaria: «se il maggiore incremento nel reddito pro-capite della Cina è avvenuto a partire dal 1980, il grosso del miglioramento dell’aspettativa di vita degli adulti e, in misura minore, della loro alfabetizzazione, vale a dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del 1980».
E proprio le caratteristiche intrinseche della Cina, premaoista, maoista e poi quella delle riforme, comportano, secondo Arrighi, la possibilità che la nuova eventuale egemonia cinese possa essere esercitata con modalità e caratteristiche diverse da quelle passate. In questo caso siamo di fronte al dilemma dei dilemmi. Deng coniò l’espressione «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi» per definire il modello che stava prendendo vita. Un modello sul quale ancora oggi la letteratura si divide.
Secondo Arrighi, ad esempio, una eventuale egemonia cinese si distinguerà dal passato per tre fattori principali: in primo luogo riporterebbe a un equilibrio mondiale il rapporto di potere tra gli Stati; si tratterebbe, poi, di uno sviluppo pacifico e non militare; in terzo luogo potrebbe aprire – sosteneva Arrighi – a nuovi modelli economici non necessariamente «capitalistici».
RIMANE PERÒ UN DATO, all’interno del dibattito su cosa sia oggi la Cina, dopo 40 anni di aperture: le riforme, oltre ad aumentare considerevolmente le condizioni di vita medie dei cinesi e a consentire l’iniziativa privata hanno creato nuove e potenti diseguaglianze nonché problematiche legate all’ambiente. Le riforme, infatti, si basarono sullo sfruttamento dei lavoratori, bassi salari e alta intensità di lavoro, e furono un’operazione neoliberista, nel momento in cui finirono per espellere dalle aziende di stato milioni di lavoratori.
Lu Tu è una sociologa cinese; negli anni scorsi si è finta operaia e ha raccolto le sue esperienze in un libro, Zhongguo xingongren, mishi yu juechi, (I nuovi operai cinesi, un boom senza identità, Pechino 2013). Lu Tu ha potuto osservare in presa diretta che il processo di accumulazione capitalistico iniziato negli anni ’90, con il colpo di grazia post 1989 – una vera e propria shock terapy nonché «patto sociale» sancito con la forza dal Pcc di Deng, «arricchitevi» ma al resto ci pensa il partito – ha dato vita a una nuova «sottoclasse urbana», che ha inserito la Cina in un contesto capitalistico, seppure protetto da un ruolo ancora primario dello Stato.
Un dato inequivocabile – infatti – delle riforme, in relazione al lavoro, è stata la campagna di privatizzazioni, iniziata da Deng e poi portata a termine da Jiang Zemin, colui che ha sancito il cambiamento epocale attraverso la teoria delle «tre rappresentanze» che giustificò l’iscrizione in massa – già in corso – nel partito comunista, fino ad allora composto in prevalenza da operai e contadini, di imprenditori privati, di cui oggi Jack Ma, il fondatore di Alibaba, nata nel 1999 ed esempio delle trasformazioni cinesi, è testimone.
Le aziende di stato erano state il fulcro dell’industrializzazione maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La maggior parte di questi colossi erano situati nelle città, dove erano impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è cominciato nel 1988, dando luogo ai licenziamenti di massa alla fine del 1990, quando, come scrivono Walker R. & Buck D. in The Chinese road, Cities in the Transition to Capitalism (New Left Review, agosto 2007) «il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di sovrapproduzione, segnando una netta transizione dalla vecchia economia della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese di stato.
PER QUESTO GRUPPO di individui, quasi sempre di mezza età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in quanto ha osservato Lu Tu, ovvero una «sottoclasse urbana»: Dorothy Solinger in Social Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong, 2013) spiega che «invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi in concomitanza con lo sviluppo economico, questa informalizzazione dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione». E a testimoniare un modello che ancora oggi prevede sfruttamento, ci sono le proteste operaie, mai sopite e indomite, anche 40 anni dopo le riforme.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.