(In collaborazione con AGICHINA24) L’attacco alle banche di Stato, la riforma del tasso di cambio, le proposte per la creazione di un mercato over the counter, la possibilità di consentire alle banche vendite allo scoperto in dollari. È solo un caso che proprio mentre continua il caso Bo Xilai il governo voglia attuare nuove riforme?“Ci troviamo in un momento molto promettente per accelerare la riforma del tasso d’interesse e del tasso di cambio”: l’editoriale firmato dal dipartimento statistica della Banca centrale di Pechino è stato pubblicato dal China Securities Journal martedì, esattamente il giorno dopo la decisione di rendere lo yuan più flessibile sul dollaro.
Da lunedì la banda di oscillazione della moneta cinese sul biglietto verde è stata estesa all’1 per cento, contro lo 0,5 per cento precedentemente in vigore, una mossa utile su più fronti: da un lato Pechino prova a zittire le voci di chi, come Washington, l’accusa da tempo di manipolare la moneta per ottenere un vantaggio sleale negli scambi con l’estero; dall’altro, una valuta potenzialmente più forte può ridurre il prezzo dei beni importati e aumentare le capacità d’acquisto dei consumatori cinesi, alimentando quel mercato interno che rimane uno dei principali obiettivi del governo.
Un nuovo passo nella marcia d’internazionalizzazione dello yuan, dicono gli analisti, ma senza tappe forzate: la moneta cinese non è ancora convertibile e la banda d’oscillazione – per quanto più estesa – rimane saldamente nelle mani della Banca centrale, in grado di estenderla o ridurla a suo piacimento a seconda della situazione.
Senza contare che la mossa è stata definita “machiavellica” da Deutsche Bank, visto che in molti – dopo la recente frenata dell’economia cinese – si aspettano uno yuan più debole almeno per i prossimi sei mesi, e la banda d’oscillazione non si applica solamente verso l’alto.
In altri termini, all’occorrenza, Pechino potrà continuare a svalutare la sua moneta, e con margini ancora maggiori. “Le riforme del tasso di cambio e del tasso d’interesse non sono facili da attuare nell’immediato e potranno essere applicate solo gradualmente –dice al China Securities Journal Sheng Songcheng, a capo del dipartimento statistica della Banca centrale- e per questo la Cina deve cogliere il momento più propizio.
Ma ritengo che i mezzi e i tempi per procedere siano ormai maturi”.
Mentre da Washington all’Europa si alzano voci sempre più forti contro gli strumenti finanziari più sofisticati, Pechino è pronta ad adottarne almeno una parte. Purché “con caratteristiche cinesi”.
È il caso, ad esempio, del “terzo listino”, un progetto di mercato “over the counter” che- pur non avendo ancora ricevuto l’approvazione finale del Consiglio di Stato- sembra ormai avviato alla realizzazione.
“Abbiamo sottoposto la versione finale al governo – ha dichiarato martedì il presidente dell’authority finanziaria Guo Shuqing al quotidiano China Securities Journal – e stiamo aspettando l’approvazione, ma posso dire che l’agenzia sta lavorando attivamente per preparare il sistema”.
Il nuovo mercato over the counter sembra modellato sul progetto pilota già in funzione nel distretto tecnologico di Zhongguancun a Pechino, a sua volta ispirato all’Over The Counter Bulletin Board statunitense, e fornisce una piattaforma elettronica per le società non quotate.
Si tratta di una misura per concedere credito anche a piccole e medie imprese, spesso escluse dalle banche, e secondo Guo si concentrerà soprattutto sulle società del settore hi-tech.
Ma il mercato over the counter è spesso sotto accusa per l’assenza di regole, così come le vendite allo scoperto, un altro sistema che Pechino ha adottato in coincidenza con l’ampliamento della banda di oscillazione dello yuan, quantomeno sul fronte forex: da lunedì 16 aprile, infatti, le banche cinesi possono promuovere short selling in dollari.
Secondo quanto reso noto dalla Safe –l’authority di Pechino che controlla il mercato forex- le banche con un turnover di valuta estera annuale oltre il miliardo di dollari potranno trattare fino a 10 milioni, mentre quelle con una quota annuale su un limite compreso tra i 100 milioni e il miliardo potranno effettuare operazioni di short selling fino 5 milioni.
“Vietare alle banche, importanti attori del mercato forex, di trattare dollari allo scoperto riduce le pressioni di domanda e offerta sullo yuan, una mossa che consentiva al governo di controllare il valore della moneta più facilmente, in assenza di dinamiche di mercato” ha dichiarato al quotidiano Global Times Chen Xuebin, vicedirettore dell’Istituto di studi finanziari dell’Università Fudan.
La mossa mostrerebbe quindi la fiducia del governo di Pechino in un bilanciamento dello yuan, e consente alle forze dei mercati di incidere maggiormente sul valore della moneta cinese.
Sul fronte dello stock market, la Cina ha lanciato lo short selling di titoli nel 2010, ma gli sforzi per diffonderne l’uso sono stati vanificati da numerose limitazioni.
Più in generale, nel mirino ci sono i lacci e i lacciuoli che caratterizzano il sistema finanziario cinese, soprattutto dopo una crescita dell’8,1 per cento nel primo trimestre 2012, la più lenta degli ultimi tre anni, al di sotto delle previsioni che la situavano all’8,4 per cento.
“Francamente, le nostre banche ottengono profitti troppo facilmente – ha dichiarato il premier Wen Jiabao all’inizio del mese ai microfoni di China Radio International – e ciò accade perché un piccolo gruppo di grandi banche occupa una posizione di monopolio, il che significa che si possono ottenere capitali e prestiti solamente attraverso queste banche”.
Nel 2011 le quattro grandi banche del Dragone – Industrial and Commercial Bank of China Bank of China, Agricultural Bank of China e China Construction Bank – hanno generato profitti per 99 miliardi di dollari, più del doppio delle controparti statunitensi, ma adesso finiscono sul banco degli imputati come simbolo di un sistema che concede credito solamente ai grandi conglomerati statali, quando le imprese private sono abbandonate al cosiddetto “sistema bancario ombra”, che applica tassi d’interesse insostenibili e provoca distorsioni nel sistema finanziario.
Mentre nell’autunno scorso un polmone dell’imprenditoria privata come la città di Wenzhou tremava sotto i colpi di una crisi di liquidità provocata proprio dalle banche sotterranee, gli istituti di credito principali continuavano a erogare finanziamenti alle amministrazioni locali.
È il sistema delle Lic, Local Investment Companies: si tratta di agenzie semipubbliche adoperate dalle amministrazioni locali per aggirare i limiti imposti dal governo centrale alla raccolta diretta di fondi.
Come funziona il sistema? Le Lic – nei cui consigli di amministrazione siedono uomini di fiducia del governo locale – si presentano alle banche e chiedono prestiti per la creazione di infrastrutture, presentando come garanzia la terra, che in Cina è di proprietà dello Stato.
Le stime dei revisori inviati dal governo centrale indicano che con questo metodo nel biennio 2009-2010 le amministrazioni locali hanno ottenuto prestiti per 10700 miliardi di yuan (1282 miliardi di euro, al cambio attuale), di cui circa un quinto sarebbe ormai in sofferenza.
Questo solamente secondo le stime ufficiali, dato che lunedì scorso Fitch ha pubblicato l’ennesimo rapporto in cui si afferma che i “bad loans” di China Development Bank, Agricultural Development Bank of China e Export Import Bank of China, le tre banche di stato incaricate di finanziare le infrastrutture, potrebbero essere superiori alle valutazioni.
Le ultime mosse del governo sembrano intenzionate a scardinare un sistema finanziario ormai datato, iniettando robuste dosi di mercato là dove fino a poco tempo fa la ragione di Stato sembrava prevalere a tutti i costi.
E mentre si parla con sempre più insistenza di “commercializzare” le tre policy banks, a Wenzhou si regolarizza il sistema bancario sotterraneo – l’unico che concedeva credito ai privati, seppure a tassi d’interesse al limite dell’usura – e si annuncia un progetto pilota per consentire ai residenti della metropoli di investire privatamente all’estero.
Riforme che avvicinano il sistema finanziario cinese ai rischi e ai vantaggi di tanti sistemi occidentali, con buona pace di un leader ormai rovinato come Bo Xilai e di tutti i funzionari che la pensavano come lui.
“Siamo convinti che sul cammino delle riforme la maggioranza dei cinesi sia con noi” ha detto recentemente un alto funzionario cinese.
Ammesso e non concesso, resta da vedere quanto sia forte la minoranza che vuole difendere la posizione delle imprese di Stato. Forse la battaglia politica che ha condotto alla caduta dell’ex leader di Chongqing si gioca soprattutto su questo terreno.
[Foto Credits: cliffkule.com]