Le reazioni alla sedia vuota di Oslo

In by Simone

Un premio in absentia. A rappresentare Liu Xiaobo durante la cerimonia di consegna del Nobel per la Pace assegnatoli l’ottobre scorso c’erano soltanto le sue parole, lette dall’attrice Liv Ullman: “Non ho nemici, non ho odio”. Il dissidente cinese condannato a 11 anni di carcere con l’accusa di istigazione alla sovversione dello Stato per essere stato tra gli estensori del documento pro-democrazia ‘Charta08’ è in carcere da quasi due anni. Al suo posto una gigantografia.

La sua sedia è rimasta vuota, occupata soltanto dalla medaglia d’oro e dal diploma poggiati dal presidente del Comitato per il Nobel, Thorbjoern Jagland. Settantaquattro anni dopo il pacifista tedesco Carl von Osseitzky, cui il regime nazista impedì di presenziare alla cerimonia,il riconoscimento non è stato ritirato da nessuno. Non ha potuto il poeta e intellettuale in carcere, né la moglie, Lu Xia, agli arresti domiciliari da ottobre e oggi più controllata che mai. Né ha potuto qualche altro familiare o amico, tutti bloccati dal governo di Pechino che ha definito “una farsa politica” la cerimonia, dopo aver chiamato “pagliacci” i membri del comitato. “Liu ci ricorda Nelson Mandela (premiato nel 1993, ndr.)”, ha detto Jagland, che ha voluto ricordare come il Nobel abbia spesso portato frizioni tra i Paesi, ma non è mai stato “assegnato per offendere” e al contrario vuole “mettere in relazione diritti umani, democrazia e pace”.

Fuori dalla sala municipale della capitale norvegese una cinquantina di cinesi protestava contro il riconoscimento concesso al dissidente o, secondo la versione di Pechino, al “criminale” Liu Xiaobo. E poco importa quel “lo merita più di me”, pronunciato dal presidente statunitense Barack Obama, Nobel nel 2009, nel chiedere la liberazione del dissidente “simbolo di valori universali”. I manifestanti non condividono il discorso di Jagland né le motivazioni del comitato: il richiamo alle maggiori responsabilità per la Cina derivanti dal suo nuovo status di grande potenza; quello al rispetto delle convenzioni internazionali di cui Pechino e firmataria o quello al rispetto della sua stessa Costituzione, che garantisce a tutti i cittadini libertà di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione.

“Non sa cosa dice”, ha commentato il presidente dell’associazione di Amicizia tra Norvegia e Cina, Yaming Yuen, “prima di parlare dovrebbe fare un viaggio in Cina”. Il governo di Pechino e i media di Stato continuano a battere sulle stesso tasto da due mesi: il premio è un interferenza negli affari interni della Repubblica popolare. La portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu, ha denunciato toni da Guerra Fredda: “Questo tipo di teatrino non farà mai vacillare la determinazione del popolo cinese sulla strada del socialismo”.

Più o meno le stesse frasi pronunciate dai leader dei Paesi che hanno deciso di boicottare la cerimonia di Oslo o perché concordano con la posizione cinese o perché hanno ceduto alle pressioni politiche ed economiche di Pechino. Con qualche marcia indietro dell’ultimo momento. È il caso della Serbia, candidata all’ingresso nell’Unione europea e fino a giovedì sera nella lista dei 18 Paesi -tra cui Pakistan, Russia, Cuba, Afghanistan, Sudan e Vietnam- che hanno deciso di non presenziare. Posizione abbandonata da Belgrado per le critiche ricevute dagli altri Paesi Ue. D’altronde la stessa Catherine Ashton, a capo della diplomazia europea, ha chiesto l’immediata scarcerazione di Liu.

Rallentato o bloccato internet, oscurati i media occidentali come la Bbc, la Cnn e la televisione pubblica norvegese NRK, i media cinesi hanno diffuso soprattutto i dispacci ufficiali. Come segnalato da David Bandurski, direttore del China Media Project dell’Università di Hong Kong, su 40 articoli presi in considerazione in cui compariva il nome di Liu, 39 avevano come fonte l’agenzia di Stato, Xinhua. “Guardate la lista di chi ha ricevuto il premio”, ha scritto il Beijing Daily, “Andrej Sakharov è stato fautore della disgregazione dell’Unione Sovietica, così come Mikhail Gorbaciov, l’uomo che ha distrutto la sua stessa nazione, o ancora il Dalai Lama sostenitore dell’indipendenza del Tibet anche con il terrorismo. Ora Liu Xiaobo, un servo dell’ideologia occidentale”.

Il quotidiano, voce del Partito comunista nella capitale, in polemica con gli Stati Uniti, ha quindi lanciato l’idea di assegnare il premio al fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, “un simbolo della libertà d’espressione, la stessa che l’Occidente usa per intimidire gli altri”. Un’idea già avanzata dal primo ministro russo, Vladimir Putin che giovedì aveva chiesto il rilascio dell’hacker australiano il cui arresto, ha detto, “dimostra l’ipocrisia dell’Occidente”. Da Mosca è arrivato tuttavia un ammonimento. “Nell’era di internet pensare di isolare completamente i dissidenti e i loro sostenitori è difficile”, ha scritto il Moscow Times, che ha paragonato il caso di Liu a quello dei Nobel sovietici, “quella sedia vuota gli si potrebbe rivotare contro”.

[Anche su Il Riformista dell’11 dicembre]