Al centro delle proteste c’è la strategia Zero Covid che, facendo ampio utilizzo di rigorosissimi lockdown e test di massa, in Cina è riuscita per tre anni a mantenere relativamente basso il numero di decessi e casi positivi rispetto agli standard occidentali. Ma le restrizioni delle libertà stanno causando non pochi disagi per la popolazione. Da ultima la morte di dieci persone rimaste intrappolate in un incendio nella regione del Xinjiang. La tragedia ha ispirato proteste in varie città, e persino tra le comunità diasporiche in giro per il mondo. La nostra analisi per Gariwo Onlus.
“Eccitante, terrificante ma anche liberatorio”. Yangyang Cheng racconta il suo stato d’animo durante la veglia organizzata dalla Università di Yale in solidarietà alle proteste contro le politiche anti-Covid che hanno travolto la Cina tra il 27 e il 28 novembre. La ragazza è rimasta sconvolta vedendo i video delle manifestazioni: le dimostrazioni, concentrate soprattutto a Pechino e Shanghai – hanno coinvolto centinaia di persone. Per la maggior parte studenti universitari. “Xi Jinping, dimettiti“, “Partito comunista, dimettiti”, hanno gridato alcuni manifestanti durante le proteste. Altri hanno esposto dei fogli di carta bianchi a simboleggiare la censura cinese.
Sono scene che non si verificano spesso in Cina, uno dei paesi più (video)sorvegliati al mondo, dove il governo controlla costantemente l’infosfera. Per Cheng, che negli Stati Uniti studia giurisprudenza, è stato come svegliarsi dopo un prolungato torpore. Non solo per lei. Grazie a Twitter e Telegram – entrambi banditi in Cina – eventi simili sono stati organizzati in tutto il mondo, da Minneapolis a Parigi fino a Tokyo. Caricature di Xi e striscioni inneggianti alla libertà di espressione sono comparsi in numerosi atenei.
Si stima che all’estero vivano tra i 40 e i 60 milioni di cinesi; 250 mila si trovano negli Stati Uniti con un visto di studio. Anche lontano da casa, il loro attivismo non è privo di rischi. Gli studenti cinesi oltremare devono “resistere ai racconti distorti e al discredito” delle politiche cinesi, ha avvisato recentemente Zheng Xiyuan, console a Manchester. Zheng non è nuovo alle cronache né alle minacce. A ottobre il diplomatico aveva aggredito un ragazzo hongkonghese davanti alla sede consolare durante delle manifestazioni antigovernative.
Negli ultimi anni l’ingerenza di Pechino all’estero è aumentata grazie al potenziamento del Fronte Unito, l’organizzazione che vigila sulle comunità diasporiche cinesi. Definita da Mao “un’arma magica”, oggi vanta tra le sue diramazioni la Chinese Students and Scholars Association (CSSA), l’ente che assiste gli studenti cinesi all’estero. Li aiuta nelle pratiche burocratiche, li supporta nella vita quotidiana. E li spia. Questo spiega – almeno in parte – la spiccata tendenza all’autocensura nei campus, anche in Occidente. Un silenzio talvolta imposto dal management universitario per non perdere le generose sovvenzioni del governo cinese. L’altra parte va invece attribuita al nazionalismo giovanile. Una sindrome piuttosto diffusa tra i nati negli anni del boom economico.
Sperimentate le distorsioni della democrazia occidentale, c’è chi vivendo all’estero finisce per idealizzare la madrepatria e sviluppare un istinto protettivo nei confronti della Cina. È quanto successo durante le proteste di Hong Kong nel 2019, quando le dimostrazioni a favore del movimento pro-democrazia in vari paesi furono sabotate da alcuni studenti cinesi. Da quel momento le delazioni dei compagni di classe fanno quasi più paura degli agenti di Pechino. È quindi indicativo che alcune “guardie rosse” pentite abbiano appoggiato le mobilitazioni di questi giorni.
Tutto questo rende la cosiddetta “A4 Revolution” una “rivoluzione” di nome e di fatto. Cosa ha spinto i ragazzi a esprimere pubblicamente il proprio dissenso? Per molti, la sicurezza della propria famiglia in Cina. Una studentessa dell’Università della Ruhr a Bochum, che vive in Germania da quando aveva 10 anni, spiega a Gariwo che a smuoverla è stato il pensiero dei nonni in lockdown senza cibo. “Almeno i beni essenziali devono essere assicurati”, sottolinea la venticinquenne alludendo alle privazioni sopportate dai cittadini durante la rigidissima quarantena di Shanghai. Pur sentendosi tedesca, soprattutto per quanto riguarda i diritti civili, la ragazza non rinnega le sue origini cinesi e fatica a immaginare una Cina senza il partito comunista.
La matrice politica della mobilitazione è evidenziata dal fatto che – ancora prima dell’incendio nel Xinjiang – le prime espressioni di malcontento erano emerse a ottobre con una protesta solitaria, a Pechino. Proprio alla vigilia del XX Congresso e della riconferma di Xi a un terzo mandato.
Generalizzare è, però, sempre rischioso. Soprattutto quando si ha davanti un movimento tanto esteso ed eterogeneo. Prendiamo l’Italia, dove si sovrappongono una pluralità di istanze. Nell’osservare da lontano le proteste in patria, diversi sino-italiani e universitari in scambio studio hanno organizzato veglie e manifestazioni di supporto a chi è rimasto in patria. Milano, Bologna, Roma, Firenze e poi ancora Roma. Sono le città in Italia che hanno fatto eco alle voci scese in piazza nei centri urbani cinesi. “In questo momento storico serve parlare, anche se tutti hanno paura”, racconta a Gariwo Xumoren, youtuber cinese da 240mila followers che ha partecipato alla manifestazione di Milano. “In parte abbiamo già vinto”, dice in riferimento all’allentamento delle restrizioni da parte del governo cinese. Per le strade di via Paolo Sarpi, la Chinatown milanese, uno stencil raffigura Xi Jinping nelle vesti di Winnie The Pooh, iconografia critica all’interno del web cinese.
Nelle vie secondarie qualche manifesto in lingua cinese esprime supporto al movimento anticensura dei “fogli A4”. “Il governo prova a interferire, ma la libertà non si può cancellare”, conclude Xu. L’organizzazione delle veglie italiane è avvenuta su canali Telegram perché “su Wechat è pericoloso parlare e i gruppi critici vengono segnalati”, raccontano alcuni manifestanti. Un passaparola spontaneo senza un vero coordinamento tra le varie città, che utilizza i social come chiave per l’attivismo politico.
A Bologna invece, la “veglia” di inizio dicembre in ricordo delle vittime del Xinjiang è diventata occasione per una riflessione su come operare una critica alla Cina che sia “precisa e attenta” nelle sue parole. Così racconta Zheng Ningyuan, artista e attivista cinese residente nel capoluogo emiliano. “Le proteste hanno funzionato, ma è importante che i giovani siano sensibilizzati alla politica tramite questi eventi”, ha commentato a proposito. Ma soprattutto, il valore delle azioni dimostrative starebbe secondo Zheng nel “costruire una rete all’estero per chi ha voglia di conoscere la Cina una volta trasferitosi”.
In questo senso l’artista sottolinea la partecipazione di molti studenti cinesi arrivati da poco in Italia. “Rispetto alle proteste in ricordo di Li Wenliang eravamo molti di più e c’è stato grande coinvolgimento da parte dei liuxuesheng (studenti di scambio), che hanno avuto voglia di rimanere in Italia trovando qui un forte pensiero critico sulla Cina”, racconta.
Anche tra chi dei 280mila residenti di origini cinesi in Italia è arrivato da poco, la stringente politica Zero Covid ha fatto crescere il seme della critica verso il paese di origine. “La strategia del governo ha salvato molte vite all’inizio, ma adesso non ha senso logico”, racconta Cui Jiayan, studente cinese che vive a Milano. “Chi ha familiarità con la realtà cinese sa bene che le proteste non sono un fenomeno nuovo nel contesto universitario, ma dopo le ultime proteste in Cina i social sono stati pesantemente censurati”. In Italia invece i suoi amici sino-discendenti “non sembrano preoccupati di quanto accade in Cina” perché cresciuti in un contesto libero.
Per qualcuno l’allentamento delle misure anti contagio è un segnale che protestare serve e in qualche modo “il popolo cinese ha già vinto”. Altri invece rimangono scettici sull’espressione politica di una realtà che non considerano più vicina. Nelle sue diverse reazioni, la comunità cinese in Italia rimarca con fierezza le sue sfaccettature. Non un corpo unico, ma una realtà che oscilla tra una parola non detta e uno stencil sbiadito di critica al presidente cinese.
Di Alessandra Colarizi e Lucrezia Goldin. Ha collaborato Miriam Verzellino
[Pubblicato su Gariwo]