Sono finite le Olimpiadi di Rio 2016 e per l’India siamo alle solite olimpioniche: 1,2 miliardi di persone che esprimono atleti capaci di vincere meno medaglie dell’Armenia; un paese votato al cricket incapace di competere a livelli accettabili in quasi ogni altro sport; è tutta colpa dei politici e della mancanza di «cultura sportiva» nazionale. Tutto vero ma c’è del buono, al femminile.Non fosse stato per alcune atlete, la performance generale della delegazione indiana in Brasile sarebbe stata descritta come un fiasco totale sia dal punto di vista sportivo sia, come causa del primo, da quello amministrativo-politico.
I rappresentanti delle istituzioni indiane a Rio hanno brillato per la propria condotta assolutamente inadeguata e irrispettosa, inanellando una serie di figuracce che si sono guadagnate i titoli della stampa internazionale.
A partire dal ministro dello sport Vijay Goel, che oltre a sbagliare i nomi delle – pochissime – indiane vincenti a Rio, pare sia stato ripreso ufficialmente dal Comitato olimpico per «maleducazione continua» e violazione delle regole: a più riprese ha cercato di infilarsi in zone riservate agli atleti per «scattarsi selfie», litigando con la sicurezza per far imbucare anche il suo codazzo di «aiutanti», sprovvisto di qualsiasi pass.
A stretto giro, per non essere da meno, una delegazione del governo locale dell’Haryana ha raggiunto il Brasile per «sostenere gli atleti dell’Haryana», salvo risultare non pervenuti durante le manifestazioni sportive, impegnati a spassarsela in spiaggia o a fare shopping. Un elenco impietoso delle figuracce racimolate a Rio dalla delegazione indiana è stato stilato da Quartz, ed è lunghetto. Comportamenti che hanno attirato l’ira dell’opinione pubblica nazionale, per l’ennesima volta costretta a farsi rappresentare al peggio dalla propria classe dirigente.
Figuracce a parte, il racconto indiano delle Olimpiadi è stato declinato interamente al femminile, grazie alle prestazioni eccezionali di tre giovani atlete: P.V. Sindhu, 21 anni, medaglia d’argento nel badmington; Shakshi Malik, 23 anni, medaglia di bronzo nel wrestling; Dipa Karmakar, 23 anni, quarto posto nel volteggio.
Le prestazioni eccellenti delle tre hanno dato motivo a diversi commentatori e vip di esaltare il «women power» indiano, evidenziando il contrasto tra le eccellenze di Sindhu, Malik e Karmakar e la generale condizione della donna in India, ben lontana dagli standard minimi di emancipazione.
In particolare, le storie di Malik e Karmakar evidenziano platealmente gli ostacoli sociali che le due atlete hanno dovuto superare solo per avere la possibilità di iniziare ad allenarsi.
Karmakar, originaria del Tripura (India del nord-est), nonostante il supporto incondizionato della famiglia ha subìto le maldicenze dei vicini che «non si spiegavano cosa ci facesse quella giovane ragazza chiusa in delle stanze con un uomo più vecchio (il suo allenatore, nda) tutto quel tempo».
Peggio ancora per Malik che, in mancanza di altre ragazze interessate al wrestling, nei primi anni di allenamento presso la Sir Chotu Ram Stadium Academy di Rohtak (ora chiusa per mancanza di fondi) era costretta ad allenarsi con i maschi, attirando le ire della società conservatrice dell’Haryana sul proprio allenatore.
Il contesto sociale in cui queste atlete sono costrette ad allenarsi – mancanza di fondi, pregiudizi della gente, peso della tradizione patriarcale – è stato raccontato in modo esemplare da Annie Zaidi nell’ultima edizione della Griffith Review. Zaidi, visitando proprio la palestra in Haryana dove Malik e altre ragazze si allenavano per le Olimpiadi, traccia un quadro generale e personale di cosa significa essere donna e voler fare sport in India ed è un reportage imperdibile per apprezzare meglio il valore sportivo, storico e sociale di queste due medaglie (quasi tre) indiane.
[Scritto per Eastonline]