Nella prima delle sue lezioni di metodo storico Edward H. Carr descriveva la storiografia come il risultato di una complessa negoziazione, in virtù dell’esistenza di variabili che mutano la comprensione di un fatto del passato. Sono variabili il tempo e lo spazio e – soprattutto – l’essere umano, autore per definizione della storiografia, al punto che Carl Becker, all’inizio del Ventesimo secolo, arrivava a scrivere che «i fatti storici non esistono finché uno storico non li crea».
Un evento può rimanere nella memoria storica a scapito di altri «fatti» perché registrato da fonti ufficiali, perché riflesso di un punto di vista dominante, perché si fa simbolo di una identità collettiva maggioritaria, ma non perché più vero di altri. Lo storico seleziona e organizza eventi in un insieme coerente, in una scala di valori che nel più ambizioso dei casi può aspirare all’obiettività, ma non all’oggettività, e meno che mai a una versione definitiva.
Quando uno studente di storia cinese si avvicina al Movimento del 4 maggio del 1919 ha l’impressione di staccarsi dalla storia e di addentrarsi in un mito, ovvero in un fatto idealizzato, in grado di identificare, cristallizzare ed «essenzializzare le» complessità di un’epoca, le sue sfumature. Nei manuali di storia politica e di storia del pensiero cinese il Movimento del 4 maggio del 1919 è quasi sempre elevato a una funzione epocale, un crocevia storico comodo, perché ormai pienamente codificato e accettato. Esiste un «prima» e un «dopo» il 4 maggio 1919 e ciò che avvenne quel giorno rappresenta una sorta di mito delle origini della Cina contemporanea.
Varrebbe la pena chiedersi che tipo di percezione abbia di questo evento un cinese medio, sotto i quaranta e con una buona cultura di base, e – perché no – cercare di capire se ciò che c’era prima del 4 maggio 1919 fosse così distinto da ciò che ci sarebbe stato dopo. Scopriremmo così che il Movimento del 4 maggio è nel mezzo di un confronto denso di contraddizioni, che assunse le sembianze di uno scontro, talvolta con l’intero sistema Occidente e talvolta con la tradizione confuciana.
In quegli anni era in atto una piena riconfigurazione dell’identità cinese: nell’arco di ottant’anni l’impero del Tianxia si riscoprì nazione; i figli del Figlio del Cielo si vollero popolo e cittadini; i letterati votati per natura all’ascolto del passato decisero di farsi intellettuali e attivisti politici; la critica era rivolta alla forma, alla gerarchia e all’ordine sociale tradizionale e fu una critica che il 4 maggio del 1919 portò al gesto estremo, eliminando ogni «se» e ogni «ma», con una violenza iconoclasta che probabilmente avrebbe avuto un seguito ancor più feroce solo durante la Rivoluzione culturale. Erano gli anni in cui scriveva Lu Xun, che avrebbe definito Confucio come un «Santo dei potenti», nelle cui soluzioni «per il popolo non c’era nulla».
Perché il Movimento del 4 maggio nell’immaginario collettivo è stato eletto a simbolo di questo processo rivoluzionario? L’imperialismo occidentale esisteva anche prima del Trattato di Versailles del 1919, la Repubblica era stata proclamata nel 1912, Sun Yat-sen parlava di rivoluzione della fine dell’Ottocento e la nazione cinese ribolliva già dai prima del Novecento, quando un diciottenne come tanti moriva di stenti nelle prigioni imperiali per aver incitato i cinesi ad annichilire cinque milioni di «irsuti e cornuti» mancesi e a «distruggere la superstiziosa dottrina per cui un uomo diventa imperatore grazie al dono del Cielo e degli spiriti». Le armi che il giovane Zou Rong opponeva in «L’esercito rivoluzionario», l’articolo apparso sul Subao nel 1903 che gli sarebbe costato la vita, erano la «civiltà» e la «scienza», e avrebbero sfidato quel dispotismo che «oscurava un’intera nazione», con cui venivano ridimensionati, dissacrati quattro millenni di civiltà imperiale.
Eppure la potenza del 4 maggio è tale da unificare cinesi (han) di ogni estrazione politica. Esistono pochi simboli che mettono d’accordo il Partito comunista cinese e il Guomindang, Mao Zedong e Deng Xiaoping (e Xi Jinping?), manifestanti a Piazza Tian’an men nel 1989 e dirigenza del Partito. Uno di questi simboli è il 4 maggio del 1919. Il Partito comunista ne ha fatto il suo mito delle origini, Mao ne esalta il volontarismo popolare e il Guomindang il valore nazionalista. Nel 1989 gli studenti e gli intellettuali di Tian’an men traevano la loro energia in quella stessa identità di piazza che fu alla base del 4 maggio, inneggiando a quella stessa democrazia invocata nel 1919 da Chen Duxiu sulla rivista «Gioventù nuova» al fianco della scienza.
Il Movimento del 4 maggio va oltre i confini della storia anche quando attraversa indenne tutte le fasi storiche della vita del Partito. Chen Duxiu contribuisce a formare l’ideale intellettuale di Mao: l’idea di una scrittura militante ed espressione del volere popolare anticipa la figura maoista dell’intellettuale al servizio delle masse, in grado contemporaneamente di educare e di apprendere dalle masse. Quando alla fine degli anni Dieci il fervore intellettuale della «Nuova cultura» si snodava tra le vie dell’Università di Pechino e la semplice adozione del cinese vernacolare come lingua scritta si faceva simbolo di una rivoluzione volta all’avvicinamento della popolazione alla cultura e alla politica, Mao era ancora un rivoluzionario di provincia: nella biblioteca della Facoltà di Lettere diretta dal teorico Li Dazhao era solo un borsista addetto alla registrazione delle presenze, e visse solo per pochi mesi – di stenti – nella capitale del modernismo cinese.
Eppure, nel 1959 e tra il 1966 e il 1968, quello stesso Mao avrebbe portato alle estreme conseguenze l’idea della partecipazione (rivoluzionaria) della popolazione alla vita politica.
E già nel 1919 celebrava gli ideali del Movimento del 4 maggio sulle pagine della «Rivista del fiume Xiang», vera e propria incubatrice del Maoismo. La «Rivista del Fiume Xiang» fu un esperimento di successo, con una tiratura sopra la media, una certa diffusione oltre i confini dello Hunan – regione natia di Mao – e una persecuzione che portò alla sospensione delle pubblicazioni nell’arco di quattro numeri.
Tra le sue pagine Mao dava sfogo al suo anti-imperialismo, in difesa della Germania e contro il Presidente Wilson; incitava alla resistenza contro l’oppressione, incarnata a turno dalle potenze dell’Intesa, dal governo di Pechino e dal signore della guerra dello Hunan; inneggiava alla democrazia, quella – a suo dire – reale, che si svolgeva al di fuori dei Parlamenti nazionali, parlando a operai e minatori; criticava il pensiero tradizionale ed esaltava la ’nuova cultura’.
Andando avanti nel tempo è interessante notare come la celebrazione del Movimento del 4 maggio da parte del Partito comunista cinese abbia cambiato volto a seconda della stagione politica attraversata, al punto che il Movimento stesso sembra rappresentare tutto e il contrario di tutto. Attraverso le pagine del Renmin ribao, il «Quotidiano del popolo», leggiamo che nel 1949 (trentesimo anniversario del Movimento del 4 maggio) pochi mesi prima della fondazione della Repubblica popolare cinese, del Movimento si esaltava l’identità rivoluzionaria e la natura popolare.
Lo stesso giornale nel 1979 e nel 1989, con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping, celebrava il settantesimo anniversario del Movimento criticando la chiusura acritica all’Occidente. Quelli che erano stati i diktat del post-rivoluzione culturale riemergevano in una nuova interpretazione politica del movimento del 1919: per operare nell’interesse delle masse era oramai necessario agire dall’alto, studiare attentamente ancor prima di agire e richiedere stabilità politica alla popolazione.
Il Movimento del 4 maggio, così, si metteva alle spalle il valore rivoluzionario e democratico, e riportava alla luce i suoi accenti progressisti e nazionalisti.
Eppure il 4 maggio del 1919 di per sé non era accaduto nulla di così diverso rispetto ad altre proteste del passato: il Trattato di Versailles non era che l’ultimo di una lunga serie di «trattati ineguali», mentre la voce di studenti e intellettuali contro il Giappone era emersa a gran voce già in passato e sarebbe ricomparsa ancora in futuro, durante l’occupazione tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. Tuttavia il ruolo del Giappone ci permette di andare oltre alla considerazione dell’intellettuale e aiuta a introdurre un secondo contributo universalmente riconosciuto al Movimento del 4 maggio: il nazionalismo.
Paese vittima dell’imperialismo occidentale e – diversamente dalla Cina di primo Novecento – in grado di portare avanti un modello efficace di modernizzazione,
Paese storicamente marginale nello spazio politico imperiale del Tianxia, il Giappone propose in Cina un progetto coloniale molto più politico rispetto all’imperialismo europeo-americano, aggiungendo l’elemento mancante per rendere manifesta la moderna nazione cinese: la coscienza nazionale.
Se il Movimento del 4 maggio del 1919 non fu solo una protesta dell’opinione pubblica colta ma si tramutò in una dimostrazione dell’esistenza di una nazione cinese fu anche perché nel maggio del 1919 la nazione si rivelò viva in tutte le sue componenti: le proteste si estesero da Pechino al resto della Cina, spinsero il malcontento nelle fabbriche, nei negozi, nei movimenti per l’emancipazione femminile e nelle scuole.
Il risultato fu che per la prima volta un movimento di opinione partito dal basso ebbe un effetto sulle classi al potere, al punto da favorire la liberazione dei leader della protesta e di spingere i delegati di Pechino a Versailles a non firmare il Trattato.
Quando sentiamo dire che il Movimento del 4 maggio del 1919 fu più rivoluzionario della Rivoluzione repubblicana del 1911 significa proprio questo: la rivoluzione Xinhai fu un mutamento – inevitabile – istituzionale. Tuttavia fu gestita dai poteri provinciali e dalla «gentry» illuminata, talvolta in conflitto con le cellule rivoluzionarie più autentiche, al punto che la soluzione della rivoluzione fu il riconoscimento della presidenza a un militare – Yuan Shikai – disinteressato agli ideali rivoluzionari.
Le masse furono in gran parte assenti, diversamente da quanto sarebbe avvenuto nel 1949, quando il contatto tra Pcc e popolazione si era nutrito delle esperienze nei soviet e del sangue versato durante la Lunga Marcia. Per questo oggi il Partito comunista cinese quando pensa alla nascita della «nuova Cina» sposta lo sguardo più al 1919 che al 1912.
L’impero cinese aveva risposto all’invadenza dell’imperialismo con programmi di apertura controllata: dapprima fu coinvolta l’industria militare, poi ci si spostò sull’industria civile, si intervenne sull’istruzione e sulla forma istituzionale, sacrificando in ultima analisi l’identità confuciana con l’abolizione del sistema degli esami imperiali nel 1905; tuttavia, uno degli aspetti che maggiormente contraddistinse l’avanguardia modernista intellettuale fu la percezione che la superiorità dei Paesi occidentali non venisse dalla tecnica, ma dall’identità nazionale, considerata allora una forma di coesione totalmente nuova, e che in questi termini è ancora oggi ritenuta uno dei precetti della Cina contemporanea.
Oggi, come ieri, le teorie ufficiali fanno un gran parlare di «fusione» tra le diverse nazionalità cinesi e, come dimostrato dalle politiche etniche del Partito, poche iniziative provocano reazioni stizzite come le interferenze sui confini della nazione cinese. C’è infine da interrogarsi su cosa rimanga oggi del «Signor De» e del «Signor Sai», i due slogan per eccellenza del Movimento del 4 maggio: democrazia e scienza. Questi due valori sono andati incontro ad articolazioni diversissime tra loro, a seconda del contesto in cui venivano e vengono tuttora calate. Ci troviamo di fronte – come spesso avvenne nel confronto culturale tra Cina e Occidente – a due rivendicazioni strumentali, in cui il contenuto non è così centrale da risultare in una dottrina sistematica.
L’identità del 4 maggio era fortemente anti-tradizionalista, per Chen Duxiu il sistema confuciano era talmente corrotto e privo di fondamento da spingerlo a definire il sistema degli esami imperiali tanto idealizzato dall’Illuminismo francese un «circo di scimmie».
Il suo carisma crebbe a dismisura parallelamente alla rivendicazione del «nuovo» e all’esaltazione della gioventù. I primi tre principi del suo «Appello alla gioventù» del 1915 sono emancipazione, progresso e aggressività. Il punto di incontro all’interno dei tre principi va ricercato nel dinamismo e nella propensione verso il futuro, così come dinamismo e modernismo sono i tratti maggiormente caratterizzanti del «signor De» e del «signor Sai», al di là dei significati specifici che le idee di «democrazia» e «scienza» hanno assunto nel tempo in Cina. In un Paese dove gli ideali di democrazia e scienza non sono il risultato di un processo storico secolare, «De» e «Sai» trasudavano soprattutto di evoluzionismo, vero punto di incontro della generazione che pose le basi per l’attivismo intellettuale degli anni Dieci e degli anni Venti.
L’evoluzionismo, come anche il nazionalismo, è un filo che lega direttamente la Cina di oggi a quella del 4 maggio del 1919. Al di là del complesso rapporto che la Repubblica popolare cinese ha avuto finora con la democrazia, e oltre la crescita degli investimenti nella scienza e nella tecnologia avanzata, l’eredità più tangibile del 4 maggio risiede proprio nella predisposizione mentale votata all’avanzamento, che possiamo intendere in termini sociali, collettivisti e comunitaristi (in epoca maoista), nell’arricchimento individuale (in epoca denghista), o nella realizzazione di un sistema di benessere e nella partecipazione attiva ai processi di globalizzazione (oggi).
In Cina non è raro incontrare giovani di buona cultura che non sanno chi siano i protagonisti del Movimento del 4 maggio o che non sanno contestualizzare questo evento se non in rapporto a un generalizzato avvento della modernità o della contemporaneità.
La spiegazione di ciò sta nel fatto che l’importanza del Movimento del 4 maggio va oltre ciò che avvenne quel giorno e risiede in ciò che il Movimento ha significato a livello intellettuale, definendo un nuovo modo di essere nel tempo e nello spazio, oggi profondamente vivo nella percezione comune e perfettamente rappresentato dal Partito comunista, assumendo così la forma di un consenso di base in una Cina in cui il rapporto tra potere e opinione pubblica presenta contraddizioni per molti versi insanabili.
Di Mauro Crocenzi*
*Si laurea nel 2005 presso la ex Facoltà di Studi orientali dell’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi sulle relazioni sino-tibetane. Nel 2011 consegue il titolo di dottore di ricerca in Civiltà, culture e società dell’Africa e dell’Estremo Oriente svolgendo un progetto di ricerca che ha per oggetto la rappresentazione dell’identità tibetana in Cina. Tra il 2006 e il 2011 svolge in Cina corsi di perfezionamento e porta avanti progetti di ricerca presso la Minzu University of China di Pechino. Dal 2012 è docente a contratto presso diverse università italiane.
[Pubblicato su il manifesto]