La Cina vive una strana ambivalenza. Da un lato è tra i maggiori beneficiari dei prestiti della World Bank ed e’ considerata un paese in via sviluppo al WTO, dall’altro è al momento il più grande donor al mondo in Africa. Cosa si nasconde dietro a questa situazione?
La realtà è che la Cina è ancora un paese in via di sviluppo. Non solo in termini di reddito pro capite la Cina si classifica come un paese a reddito medio-alto ma rimangono ancora alcune sacche di povertà, ed è per questo che si muovono critiche domestiche alla politica di aiuto allo sviluppo avviata da Pechino verso i paesi africani e non solo. Prima risolviamo le questioni interne e poi aiutiamo gli altri, recitano in molti. In questa situazione la cosa interessante è che la Cina era fino a qualche anno fa molto simile ai paesi che sta ora aiutando. Fino a poco tempo fa condivideva molte delle caratteristiche dei paesi in cui si trova ad operare oggi come finanziatore. Chiaro che per Pechino è più facile capire ed adattarsi a logiche familiari rispetto ai paesi occidentali, e questo è un bel vantaggio.
Come inquadri la Nuova via della seta, dal punto di vista dello sviluppo?
Prima di tutto va detto che la Nuova via della seta non è un framework di sviluppo, è una politica economica e lo sviluppo può essere una conseguenza di questo progetto, ma non e’ lo scopo principale per la Cina. La nuova via della Seta nasce in risposta a questioni domestiche come la sovraccapacità produttiva o la necessità di far crescere le economie delle province più interne, non con ambizioni di sviluppo esterno. In questo senso la Via della Seta non è nulla di nuovo, quello che cambia è la dimensione del fenomeno e la rapidità con la quale si sta evolvendo.
Detto questo, molti dei paesi lungo la via della seta sono in via di sviluppo. Sul sito ufficiale della Nuova via della seta, sono elencati i 137 paesi che hanno firmato un accordi con la Cina. 22 di essi sono paesi a basso reddito secondo la Banca Mondiale, gli altri 75 a medio reddito, mentre i rimanenti 40 sono ad alto reddito. Perciò questo le infrastrutture che vengono costruite come parte della via della seta possono aiutare i paesi a svilupparsi.
Rispetto alla Nuova via della seta, si parla di una ‘trappola del debito’ in cui rimarrebbero invischiati i paesi con economie più deboli, rispetto alla Cina. Cosa ne pensi?
In realtà gli studi effettuati non supportano l’idea della presenza di una trappola del debito né in Kenya, che è un paese di cui mi sono occupata ultimamente, né in altri paesi firmatari di accordi con la Cina sulla Nuova via della seta. Certamente il rischio di una nuova crisi del debito esiste, ma sarebbe un fenomeno globale, non attribuibile alla Cina. Non ci sono prove che dimostrino una chiara strategia cinese nel voler intrappolare i paesi nella rete del debito. Uno studio di ODI riconosce anzi che solo pochi paesi asiatici sono a rischio in termini di debito nei confronti della Cina e un report appena pubblicato da Rhodium afferma che in molti casi il debito viene rinegoziato e che è molto raro che gli asset vengano presi dalla Cina come nel caso che viene sempre citato, ovvero lo Sri Lanka. Il fatto che si parli molto del pericolo di questa ‘debt trap’ a livello internazionale, ha avuto un effetto positivo perché spinge i paesi coinvolti a innalzare il livello del dibattuto economico coinvolgendo attori a tutti i livelli dei governi e promuovendo un dibattito che non può che essere sano.
Quali vedi come ostacoli pratici maggiori alla Nuova Via della Seta dal punto di vista dello sviluppo?
Stime dell’African Development Bank ci dicono che nel 2018 le spese per le infrastrutture necessarie in Africa ammontavano a 130-170 miliardi di dollari, e che più della metà di esse non sono state finanziate. L’innesto di capitali cinesi nelle infrastrutture sta spingendo non solo i paesi beneficiari a ripensare bene a come utilizzarli ma anche i paesi donatori a riconsiderare il loro modo di fare sviluppo. Se tradizionalmente i paesi donatori cercavano di agire sul sistema di governance del paese per migliorarne il framework politico e preparare così la strada agli investimenti, la Cina, secondo il principio di non ingerenza negli affari interni degli altri paese, si occupa della sola creazione di infrastrutture. Una nuova via, che pare interessante.
Quali gli effetti della Nuova via della seta sui piani di sviluppo delle economie più deboli coinvolte?
Quando i cinesi hanno delle idee nel metodo di pianificazione delle infrastrutture di trasporto ad esempio, sono spesso legate a infrastrutture produttive. C’è una fabbrica, costruiamo una strada. Non sempre queste si identificano con le priorità di sviluppo proprie del paese in questione. Questo è un problema che molti paesi stanno affrontando, dopo la “sbornia” iniziale. In Kenya, ad esempio, i cinesi hanno ristrutturato una vecchia ferrovia che unisce la costa alla capitale Nairobi, ma è legittimo chiedersi se non fosse meglio fare delle strade o allargare le arterie esistenti. In Asia, la Birmania ha creato un comitato per analizzare i progetti proposti dalla Cina, e decidere se sono allineati con gli obiettivi nazionali di sviluppo, e se il paese può permettersi di contrarre questi debiti. Insomma esiste una diversità negli approcci e stiamo assistendo allo sviluppo di una dialettica tra Cina e i paesi interessati riguardo a ciò.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.