Terza puntata della collaborazione tra China Files e Istituto Affari Internazionali. “Dall’Atlantico al Pacifico”: ogni due mesi un mini dossier con diverse analisi sugli ultimi sviluppi delle relazioni tra Stati Uniti, Cina e il resto dell’Asia – (1a uscita, febbraio 2021) – (2a uscita, maggio 2021)
Gli altri contenuti del dossier: Tutti vogliono investire in Asia (Michelle Cabula e Francesca Ghiretti) – Le relazioni tra Stati Uniti e Filippine: tra alleanza storica e recente allontanamento (Paola Morselli)
Come già ha accelerato diverse altre tendenze economiche e geopolitiche, la pandemia da Covid-19 ha reso più rapidi alcuni processi già in atto da tempo sotto il profilo difensivo dell’Asia Pacifico, esacerbando tensioni pre esistenti e rendendo più pressanti le questioni già aperte. Una di queste tendenze è la transizione delle relazioni tra Cina e Giappone dalla cooperazione pragmatica alla rivalità strategica.
L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca e il contestuale rilancio delle partnership a livello multilaterale e bilaterale stanno portando sviluppi anche sotto il profilo della sicurezza. Per esempio, con il rilancio deciso del Quad, la piattaforma (per ora) informale di dialogo prettamente difensivo tra Stati Uniti, Giappone, India e Australia che sta cercando di prendere un corpo sempre più definito, con Washington che mira a creare un qualcosa di simile a una Nato asiatica, tra le ritrosie delle potenze medie asiatiche e degli altri Paesi dell’area. Nello stesso tempo, la nuova amministrazione americana cerca di riallacciare i rapporti bilaterali anche in materia di difesa. Un esempio il recente avviamento della costruzione congiunta con l’Indonesia di un nuovo centro di addestramento marittimo nell’area strategica di Batam, nelle isole Riau.
Anche le singole potenze medie dell’Asia Pacifico stanno rafforzando i legami bilaterali con gli altri Paesi dell’area. È il caso per esempio del Giappone, divenuto da tempo un importante partner difensivo a livello regionale e non solo. Il primo viaggio all’estero di Yoshihide Suga in veste di premier, nell’autunno del 2020, è stato nel Sud-Est asiatico. Significativa la scelta di Vietnam e Indonesia, il primo il Paese più deciso a difendere le proprie rivendicazioni nelle dispute territoriali con Pechino nel mar Cinese meridionale e il secondo quello con la maggiore economia della regione. Ma ancora più significativa la dimensione “corazzata” di quella visita, durante la quale è stato annunciato un accordo che prevede l’esportazione da parte giapponese di tecnologie e attrezzature militari verso Hanoi con il coinvolgimento dei velivoli Kawasaki Aerospace, sia quelli di pattugliamento marittimo P-1 sia quelli da trasporto tattico C-2. Già nei mesi precedenti, d’altronde, Tokyo aveva prestato 348 milioni di dollari al Vietnam per la costruzione di unità navali. Accordo simile a quello definito a Giacarta, con un governo solitamente molto più cauto sotto il profilo difensivo e geopolitico. Il Giappone ha, in particolare, ampliato le sue forniture di mezzi navali ai Paesi del Sud-Est asiatico. Le due destinazioni tradizionali sono Malesia e Filippine. Alla fine del 2020, Kuala Lumpur aveva in dotazione un totale di 17 imbarcazioni distribuite tra Agenzia marittima, dipartimento doganale e forze di polizia navali. Manila ne aveva invece 14, tutte a disposizione della guardia costiera. Anche la guardia costiera vietnamita può operare con 12 navi fornite dal Giappone, mentre la polizia marittima indonesiana ne ha a disposizione tre e il dipartimento doganale della Cambogia due. D’altronde, Tokyo ha approvato un budget difensivo record da 51,7 miliardi per il 2021, prevedendo una crescita fino a 56,7 miliardi nel 2024. La marina si doterà nuovamente di portaerei mentre si investe in nuovi missili ipersonici e si programma la produzione di massa di nuove unità aeree entro il 2031. Approvata anche una riforma che militarizza la guardia costiera, in risposta a una omologa misura precedentemente lanciata da Pechino. Il ministro della Difesa scelto da Suga, Nobuo Kishi, ha profondi legami con Taiwan, con cui una parte della maggioranza vuole stabilire un “Relations Act” bilaterale.
Anche l’Australia ha intensificato la propria presenza militare nell’Asia Pacifico. Nel 2020 Canberra ha operato un aggiornamento strategico della propria strategia di difesa, ora esplicitamente parte di uno sforzo a tutto campo per difendere l’ordine regionale esistente. Oltre alla classica attenzione al Pacifico meridionale, tradizionale sfera d’influenza australiana, il raggio d’azione è stato esteso con decisione all’Oceano Indiano nord-orientale e all’Asia marittima e continentale sud-orientale fino alla Papua Nuova Guinea. L’aggiornamento strategico prescrive un approfondimento degli impegni esistenti dell’Australia nei partenariati di difesa regionale, allo stesso tempo prevedendo anche “una forza di difesa australiana (ADF) più letale, pronta e autosufficiente”, ben equipaggiata per compiti che vanno dal rafforzamento delle capacità e dalla competizione nella “zona grigia” alla deterrenza convenzionale e ai conflitti ad alta intensità.
L’India è stata cauta nel suo approccio alla visione del Free and Open Indo Pacific lanciata da Shinzo Abe e sostenuta da Washington, ma si è impegnata in ambito Quad ospitando le prime esercitazioni militari congiunte tra tutte e quattro le marine, a Malabar, nell’autunno del 2020. il cambiamento di prospettiva da parte indiana è stato evidente anche nell’accoglienza positiva del rinnovo dell’accordo difensivo tra Stati Uniti e Maldive. Mentre anni prima era stato percepito come un’invasione di campo da parte di Washington in un’area di tradizionale influenza indiana, dopo gli scontri lungo il confine con la Cina la proroga è stata vista con favore.
A causa della forte dipendenza commerciale, moltissimi Paesi dell’area non hanno mai preso una posizione netta nel contesto dello scontro tra Usa e Cina, cercando ancora adesso di non scegliere da che parte stare. Un tentativo che si fa però sempre più difficile, come dimostra il caso della Corea del Sud. Il presidente Moon Jae-in, secondo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca da Biden dopo Suga, ha acconsentito a inserire una citazione della situazione sullo stretto di Taiwan nel comunicato finale. Non solo. Seul ha partecipato al G7 di Cornovaglia (pur prendendo poi le distanze dalla linea anti cinese del summit) e farà sempre più fatica a resistere alle richieste di entrare nel Quad. Lo stesso discorso si può fare con i Paesi ASEAN. Le Filippine di Rodrigo Duterte si erano molto avvicinate alla Cina ma negli scorsi mesi la loro posizione sta diventando più tradizionale. Manila è tornata a svolgere test militari congiunte con gli Stati Uniti e ha realizzato la prima esercitazione delle forze aeree con il Giappone (elemento ancor più significativo se si tiene presente il retaggio colonialista di Tokyo nel Sud-Est asiatico e in particolare nelle Filippine). Nonostante le minacce, Duterte non ha mai cancellato il Visiting Force Agreement, uno dei pilastri della più ampia cornice dei rapporti difensivi tra Filippine e Usa, e proprio in questi giorni discute la sua proroga con il Segretario alla Difesa Lloyd Austin. La Cambogia appare più saldamente inserita negli ingranaggi della Repubblica Popolare, come dimostrano le polemiche nate durante la recente visita di Wendy Sherman, vice Segretario di Stato, durante la quale non le è stato garantito pieno accesso alle basi militari del Paese, sospettate da Washington di fornire supporto logistico all’Esercito popolare di liberazione. Il futuro riserva sfide inedite sulle acque asiatiche.
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.