I Paesi della regione sono invitati a scegliere: l’Occidente o il nuovo asse Cina-Russia? C’è chi rifugge gli aut aut, chi invece si schiera. Ma quasi tutti in Asia sembrano intenzionati a sfruttare la crisi internazionale per ottenere il massimo e concedere il minimo: attingendo alla protezione degli Stati Uniti, o spremendo Mosca, indebolita da tre anni di guerra e sanzioni. Persino Pechino, che continua a ottenere sconti su petrolio e gas. E anche Kim.
Un inchino davanti al mausoleo di Kim Il-sung a Pyongyang, una stretta di mano davanti al busto di Ho Chi Minh a Hanoi. Per un momento, la recente visita di Vladimir Putin in Corea del Nord e Vietnam ha riportato indietro di oltre sessant’anni le lancette della storia.
Come in piena guerra fredda, anche oggi, lo scontro con l’Occidente spinge Mosca a tessere la sua tela in Asia. “Le relazioni tra i nostri paesi stanno entrando in un periodo di nuova grande prosperità, che non può essere paragonato nemmeno al periodo delle relazioni coreano-sovietiche del secolo scorso”, ha dichiarato il leader nordcoreano Kim Jong-un il 19 giugno accogliendo il capo del Cremlino, di ritorno a nord del 38° parallelo per la prima volta dal 2000. Ma l’Asia di oggi non è l’Asia di Kim Il-sung e Ho Chi Minh. La relazione tra l’Occidente e i Paesi inquadrati nel cosiddetto “Sud globale” non è più segnata dall’ideologia. Piuttosto, a minacciare una nuova divisione in blocchi antagonisti, sono i calcoli geopolitici e la necessità di riformare un ordine mondiale ancora di impronta euro-americana.
Putin e l’Oriente
La strategia di Putin è abbastanza chiara: corteggiare l’Asia per arginare l’isolamento internazionale provocato dall’invasione dell’Ucraina, e nel frattempo ottenere preziosi aiuti immediati al proprio sforzo bellico. In Corea del Nord, il presidente russo ha accusato la NATO di minare la sicurezza nel continente; in Vietnam ha rimarcato la necessità di costruire “un’architettura di sicurezza affidabile nella regione dell’Asia-Pacifico basata sui principi del non uso della forza e della risoluzione pacifica delle controversie”. In entrambi i paesi ha auspicato “sistemi di prestito in valute nazionali più sostenibili”: tema caro ai BRICS che, politicamente guidati soprattutto da Pechino e Mosca, potrebbero diventare presto più “asiatici” dopo la richiesta di adesione di Thailandia e Malesia.
Non sembra casuale che il capo del Cremlino – su cui incombe il mandato d’arresto della Corte dell’Aia – abbia scelto di recarsi a Pyongyang e Hanoi solo pochi giorni dopo la Conferenza di pace organizzata da Volodymyr Zelensky in Svizzera. Ancora meno che lo abbia fatto dopo la partecipazione del presidente ucraino allo Shangri-la Dialogue, il forum sulla sicurezza di Singapore. L’Asia è sempre più centrale negli equilibri mondiali. Chi ne conquista il cuore ottiene consensi ai tavoli internazionali, potenziale aiuto economico e supporto militare. Putin, questo, lo ha chiaro da tempo. Inoltre, la dottrina geopolitica seguita dagli Stati Uniti prevede il contenimento delle potenze eurasiatiche, come Russia e Cina, proprio attraverso un sistema di alleanze politico-economiche “laterali”: in Europa, e in Asia orientale. L’azione del Cremlino funge così da contrasto a questa strategia.
La marcia verso Est di Mosca infatti precede la crisi attuale. Risale al 2014 quando, occupata la Crimea, Putin decide di ravvivare i rapporti con il continente asiatico per controbilanciare le prime sanzioni occidentali. Nasce l’Eastern Economic Forum (EEF), piattaforma pensata per attrarre investimenti nell’Estremo oriente russo. All’inizio è un successo. Tra gli ospiti d’onore figurano l’ex premier giapponese Shinzo Abe e la presidente sudcoreana Park Geun-hye. Ma l’invasione dell’Ucraina ha creato una frattura troppo profonda. Al forum di Vladivostok gli alleati asiatici di Washington non vanno più, mentre anche gli amici storici (Cina compresa) si muovono con maggiore cautela per non oltrepassare il perimetro delle sanzioni.
I Paesi della regione sono invitati a scegliere: l’Occidente o il nuovo asse Cina-Russia? C’è chi rifugge gli aut aut, chi invece si schiera. Ma quasi tutti in Asia sembrano intenzionati a sfruttare la crisi internazionale per ottenere il massimo e concedere il minimo: attingendo alla protezione degli Stati Uniti, o spremendo Mosca, indebolita da tre anni di guerra e sanzioni. Persino Pechino, che continua a ottenere sconti su petrolio e gas. E anche Kim.
Apparentemente il rapporto con Pyongyang ha natura “win-win”: secondo l’intelligence di Seul, da mesi la Russia starebbe ottenendo dal Nord missili e munizioni da usare in Ucraina, in cambio di tecnologia a “doppio uso” e assistenza tecnica per il programma di spionaggio satellitare nordcoreano. Con la visita di Putin, la cooperazione è stata ampliata grazie alla firma di un “accordo di partnership strategica” che, tra le altre cose, prevede mutua assistenza militare. Una condizione che era già compresa nel vecchio trattato del 1961 concluso dall’URSS, poi rimossa nella versione del 2000 siglata durante la prima visita di Putin a Pyongyang.
A prescindere se si tratti o meno di “un’alleanza” (come l’ha chiamata Kim), l’intesa sembra segnare un’inversione netta rispetto agli anni contraddistinti dal via libera russo alle sanzioni internazionali contro la Corea del Nord. Il vero potenziale dell’operazione diplomatica è però soprattutto quello implicito: per Putin fare leva sullo spettro di una Corea del Nord capace di trasformare l’Asia orientale in un focolaio di instabilità può rappresentare un modo per spingere l’Occidente a moderare il sostegno all’Ucraina. Per Kim invece l’amicizia con Mosca serve ad allentare la dipendenza da Pechino, primo partner economico di Pyongyang. Conta poco se in caso di aggressione esterna i due leader davvero marceranno insieme sul campo di battaglia.
In Vietnam il tentativo di giocare la carta russa su più tavoli è anche più evidente. Hanoi è l’unica capitale ad aver accolto in meno di un anno il presidente cinese Xi Jinping, l’omologo americano Joe Biden e Vladimir Putin. “Diplomazia del bambù”: così Nguyen Phu Trong, il segretario generale del Partito comunista vietnamita, ha definito la disponibilità del paese asiatico a dialogare con tutti. Con gli Stati Uniti, interessati a investire nello sviluppo tecnologico del Vietnam, pur criticandone la scarsa tutela dei diritti umani. Con la Cina, importante partner commerciale ma avversario nelle acque contese del mar Cinese meridionale. E con la Russia, storico fornitore di armi così come lo è però anche l’Ucraina.
Secondo il New York Times, lo scorso anno Hanoi ha siglato con Mosca un accordo segreto da 8 miliardi di dollari per il trasferimento di armamenti attraverso la joint venture energetica Rusvietpetro, che svolge operazioni estrattive in Siberia. Ma è indicativo che dalla visita di Putin non sia emerso nulla di nuovo nel settore della difesa. Piuttosto i colloqui hanno portato alla firma di documenti legati all’energia, dal nucleare alle esplorazioni congiunte per la ricerca di giacimenti di gas e petrolio. Quanto realmente serve al Vietnam, colpito da frequenti blackout. D’altronde, se Pyongyang ha promesso “pieno supporto e solidarietà” all’”operazione militare speciale” di Putin, Hanoi non ha mai preso una posizione chiara in merito, evitando di condannare l’invasione russa ma mantenendo cordiali rapporti con Kiev.
Gli alleati dell’Occidente in Asia
Dall’altra parte della “cortina di bambù”, invece, non c’è spazio per l’ambiguità: il sostegno va incondizionatamente a Zelensky, il leader che combatte per proteggere la sovranità del proprio paese. Eppure, anche nell’Asia liberale gli interessi nazionali restano il faro per schivare i contraccolpi della guerra in Europa.
Fatta eccezione per l’India, tutt’oggi “non-allineata”, le democrazie asiatiche alleate di Washington hanno scelto fin da subito con chi stare. Dopo i primi indugi, la paura di fornire un pretesto a Mosca e Pyongyang per intensificare la cooperazione militare ha lasciato spazio alla rassegnazione: Corea del Sud e Giappone hanno criticato duramente l’invasione della Russia, optando per approvare restrizioni sull’export a “doppio uso” di macchinari, batterie ricaricabili e componenti per aerei utilizzabili contro l’Ucraina. In risposta al trattato difensivo tra Kim e Putin, Seul ha persino ventilato per la prima volta la possibilità di fornire armi direttamente a Kiev, in deroga alla politica di lunga data che vieta l’assistenza militare ai paesi attivamente impegnati nei conflitti.
Non solo sarebbe una svolta radicale per la postura internazionale della Corea del Sud. La misura darebbe anche una spinta vigorosa all’industria della difesa sudcoreana che negli ultimi tre anni ha già beneficiato enormemente dall’esportazione di armamenti agli alleati di Kiev, Polonia in primis. In questa direzione si muove piano piano anche Tokyo. Vincolato alla semplice autodifesa fin dalla Seconda guerra mondiale, a dicembre il governo nipponico ha introdotto nuove linee guida che consentono la spedizione di missili Patriot all’Ucraina, triangolando attraverso gli Stati Uniti. E poi c’è in ballo la ricostruzione del paese martoriato dalla guerra, a cui le aziende sudcoreane e giapponesi guardano anzitempo.
Solidarietà o puro interesse? Forse entrambi. Difficile non notare come la crisi in Europa stia fornendo l’occasione per rispondere a una minaccia più vicina: rafforzando il proprio arsenale le potenze asiatiche non reagiscono solo alle provocazioni di Putin o ai test missilistici dell’”amico” Kim. Giappone, Corea del Sud – ma anche come detto il Vietnam – guardano con apprensione i movimenti della Cina nello Stretto di Taiwan e attorno alle isole contese del mar Cinese. Agli occhi dei vicini regionali, l’allineamento con Mosca – sempre più spesso anche nell’Asia-Pacifico – conferisce un aspetto persino più intimidatorio al pericolo cinese.
L’invito al prossimo vertice NATO rivolto a Giappone e Corea del Sud – oltre che all’Australia e alla Nuova Zelanda – fornisce l’opportunità per creare un legame più forte tra i due scacchieri, orientale e occidentale. Ma ancora una volta probabilmente saranno soprattutto gli sviluppi nel cortile di casa a dettare le prossime mosse dei Paesi asiatici. Questa reticenza a esporsi dall’altra parte del mondo trova riscontro nella scarsa partecipazione asiatica alla conferenza di pace in Svizzera, a cui hanno presenziato solo i capi di governo di Giappone e Timor Est. D’altronde la diplomazia del continente è già assorbita da altre crisi più prossime: soprattutto Gaza e Myanmar, quest’ultimo mai così allo sbando dal golpe del febbraio 2021.
E’ innegabile, la visita di Putin a Pyongyang e Hanoi ha accorciato la distanza tra Asia ed Europa. Ma quanto davvero?
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.