All’indomani della strage del Pulse di Orlando sono piovuti messaggi di solidarietà agli Usa da ogni angolo del globo. Anche dall’India, che con Narendra Modi sta cercando di posizionarsi, a livello pubblico, come uno degli «amici» più cari della democrazia a stelle e strisce. Il cordoglio istituzionale, viaggiando tra comunicati stampa e tweet, si è però concentrato unicamente sulla minaccia terroristica globale, rimuovendo dal discorso il fatto che le 49 persone uccise da Omar Mateen erano omosessuali e l’atto terroristico «offerto» alla propaganda dell’Isis ha una caratterizzazione spiccatamente omofobica. Un tema dal quale le istituzioni indiane si tengono bene alla larga.Affidandosi al medium prediletto per la comunicazione col suo pubblico, Narendra Modi lunedì 13 giugno ha twittato:
«Sconvolto dalla sparatoria di Orlando, Usa. I miei pensieri e le mie preghiere vanno alle famiglie in lutto e ai feriti.»
Il tweet, doveroso e in linea con la solidarietà internazionale arrivata agli Stati Uniti da ogni angolo della Terra, in India ha scatenato diverse polemiche per la palese omissione del lato Lgbtq di tutta la questione, evitando così di sollevare lo spunto per un’autoanalisi profonda alla quale l’India – e non solo – dovrebbe sottoporsi rispetto ai diritti Lgbtq e alla discriminazione che ogni giorno subisce la propria comunità omosessuale.
A onor del vero, anche i comunicati più istituzionali del presidente della repubblica Pranab Mukherjee e del vice presidente Mohammad Hamid Ansari vertono esclusivamente sulla minaccia terroristica internazionale, mettendo l’India in prima fila tra i paesi uniti nella lotta al terrorismo (nota: non si fa riferimento al «terrorismo islamico», ma solo al «terrorismo»). Ma se le comunicazioni ufficiali prevedono un’etichetta rigida di parole di circostanza che mostrino solidarietà senza infilarsi in discorsi «sensibili», quando Modi decide scientemente di affidarsi a un medium diretto, saltando i protocolli e, soprattutto, le eventuali domande dei giornalisti, decide anche di aprire il fianco alle critiche «della base». Che, nel caso di Orlando, non sono mancate.
Il riferimento va alla legge 377 del codice penale indiano, che criminalizza i «rapporti contronatura» con pene fino a dieci anni di reclusione. Seppure la legge, di epoca vittoriana, sia raramente applicata nella sua declinazione detentiva, il fatto che il codice indiano nel 2016 continui a mantenere una norma altamente discriminante nei confronti della comunità Lgbtq nazionale è la cartina al tornasole di una società dove l’omofobia rimane diffusa e dove le istituzioni volutamente ficcano la testa sotto la sabbia piuttosto che adoperarsi per superare un costume retrogrado, indegno di una democrazia.
Oltre alle critiche su Twitter, alcuni media hanno riportato le dichiarazioni di personaggi simbolo della lotta per i diritti Lgbtq in India. Su Dna, ad esempio, c’è un’intervista – tra le altre – ad Apurva Asrani, sceneggiatore del film Aligarh: la pellicola, uscita in India lo scorso anno, traspone sul grande schermo la drammatica vicenda di Shrinivas Ramchandra Siras, professore presso la Aligarh University spinto al suicidio dopo anni di discriminazioni a causa della sua omosessualità.
«In India, ogni anno, ci sono moltissime "Orlando"», ha dichiarato Asrani. «Il governo si tiene lontano da qualsiasi riferimento alla comunità [Lgbtq] perché altrimenti dovrebbe giustificare la propria posizione rispetto alla legge 377».
La legge 377, dopo un breve periodo di abrogazione in virtù di una sentenza dell’Alta Corte di New Delhi, è stata reintrodotta nel codice indiano nel 2013 per effetto di una sentenza della Corte suprema, che accogliendo un ricorso fatto da un’associazione ultrinduista ha decretato che l’abrogazione di una legge simile si può ottenere esclusivamente attraverso un iter parlamentare. Cioè occorre che il parlamento indiano proponga e voti un decreto specifico contro la 377.
Dal 2013 ad oggi solo Shashi Tahroor, deputato keralese dell’Indian National Congress (Inc), ha provato a far passare al voto un disegno di legge in questo senso. Sia nel dicembre del 2015 sia nel marzo del 2016 la sua proposta è stata bloccata dalla maggioranza schiacciante che il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito del primo ministro Narendra Modi, detiene nella camera bassa del parlamento indiano.
[Scritto per Eastonline]