In Myanmar quattro fabbriche si stanno rapidamente riconvertendo nella produzione di mascherine. Inutile dire che alcune sono della filiera del tessile, una delle industrie chiave nel Paese. E’ uno dei nuovi affari connessi al coronavirus.
Affari sacrosanti (se i prezzi delle mascherine non lievitassero come la pasta del pane) ma che hanno puntato i riflettori sugli effetti che il virus ha su uno dei grandi settori dell’economia globale – il tessile/calzaturiero – che ha in Asia, dal Bangladesh al Vietnam, da Sri Lanka all’India la fucina dove le grandi firme fabbricano a prezzi super convenienti camice e scarpe, pret a porter e magliette della salute. In certi casi l’apparente disastro (la mancanza di materia prima, il crollo della domanda, i divieti sulla logistica) si trasforma persino in manna dal cielo.
Molte aziende in Myanmar hanno approfittato della crisi per chiudere temporaneamente e licenziare sollevando scioperi e proteste in sordina a causa del virus. Ma altre han pensato bene di fallire per riaprire sotto altra forma. In questo modo, denunciano i sindacalisti locali, si licenza senza problemi e si riapre usufruendo dei vantaggi per le start-up. Cosa c’è di meglio di una crisi per ristrutturare il profitto?
L’ondata peggiore della crisi passa dunque soprattutto nei Paesi dove si produce su commissione. Dove la relazione tra aziende e sindacato è fragile e dove le garanzie per chi perde il lavoro sono minime o non ci sono. Due rapporti usciti in marzo han cercato di fare il punto: «Abandoned?» del Center for Global Workers’ Rights e «Who will bail out the Workers that make our clothes?» del Worker Rights Consortium. Mettono in luce gli effetti del Covid-19 sulle catene di fornitura. Lontane da casa.
Marchi e distributori scaricano infatti le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. «Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna, con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera. E hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa di fatto una violazione contrattuale» spiegano alla Campagna abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.
Al di là dei furbi e di chi si approfitta della situazione, ciò significa che i proprietari delle fabbriche esecutrici non hanno più liquidità per pagare i salari e che in futuro il quadro potrà solo peggiorare.
Secondo l’associazione dei produttori del tessile (Bgmea) del Bangladesh, ordini per oltre tre miliardi di dollari sono finora stati cancellati. In Thailandia, le fabbriche di abbigliamento continuano invece a funzionare ma gli ordini stanno rallentando. Si teme – preoccupazione diffusa – che alcune fabbriche possano utilizzare il Covid-19 come scusa per chiudere. E con lo stato di emergenza scioperare è impossibile.
Le due ricerche ricordano infine che in buona parte dei Paesi produttori di abbigliamento, i meccanismi di protezione sociale, come l’assicurazione sanitaria o l’indennità di disoccupazione, non esistono o sono insufficienti. Lo stesso vale per i fondi di garanzia in caso di insolvenza.
Non di meno, dicono ad Abiti Puliti, i due dossier sembrano aver sortito un effetto: dopo la loro pubblicazione un certo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche avevano già in produzione: H&M, PVH Corp (che possiede Van Heusen, Tommy Hilfiger, Calvin Klein e altre), Inditex (proprietario di Zara) e Target.
Stiamo parlando di un settore – tra tessile, abbigliamento e calzature – che impiega milioni di persone, l’80% donne secondo l’Ufficio internazionale del lavoro: si va dagli oltre 100 milioni dell’India ai 3,6 del Bangladesh dove il tessile è l’industria trainante dell’export. Per saperne di più c’è un blog (cleanclothes.org/news/2020/live-blog) che aggiorna quotidianamente sugli effetti globali del virus nella filiera del tessile/calzature.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]