Da tempo Cina e Giappone non avevano al comando leader così forti e nazionalisti. Con loro, il confronto tra le due potenze asiatiche è stato segnato da un’aspra rivalità. Dopo la parallela conferma al vertice, però, tra Pechino e Tokyo prevalgono i cenni di distensione
Nel primo secolo dopo cristo lo storico greco Plutarco scrisse una serie di «Vite» di grandi personaggi greci e latini. Il suo intento era pedagogico: dispensare modelli morali ed etici ai suoi allievi e ai governanti del tempo e avvicinare le due grandi civiltà dell’antichità occidentale, una sottomessa, l’altra ancora all’apice del suo potere. Oggi, fosse ancora in vita e in cerca di ispirazione, volgerebbe forse il suo sguardo di storico all’Asia orientale.
Qui, le vite (quasi) parallele sono quelle dei leader delle due prime economie della regione: Shinzo Abe e Xi Jinping, sempre più forti — e soli — al comando.
Destini paralleli
Era novembre 2012 quando il 18esimo congresso del Partito comunista cinese incoronava Xi Jinping leader supremo del partito e della Cina. Poco più di un mese dopo, a dicembre 2012, Shinzo Abe veniva eletto con elezioni democratiche per la seconda volta capo del governo di Tokyo. A dispetto dei diversi sistemi politici che li ha «prodotti», i due condividevano allora e condividono oggi numerosi tratti. Ne fa un sunto efficace Cary Huang, commentatore del quotidiano hongkonghese South China Morning Post.
«Entrambi sono politici di sangue blu, figli di politici di massimo; le loro famiglie hanno patito ritorsioni politiche (Abe è nipote di Nobusuke Kishi, dirigente in Manciuria ai tempi della dominazione giapponese negli anni trenta e primo ministro negli anni sessanta; Xi è figlio di Xi Zhongxun, dirigente del Pcc della prima generazione purgato negli anni sessanta e riabilitato un decennio più tardi, ndr); sono politicamente ambiziosi, ma ideologicamente conservatori; sono nazionalisti ma optano per una politica estera decisa; sono patriottici e cercano di svecchiare i propri paesi».
All’indomani delle elezioni anticipate per la Camera bassa della Dieta giapponese, casualmente capitate nella stessa settimana del 19esimo congresso del Partito comunista cinese, si può aggiungere un altro aspetto: i due leader sono al momento senza opposizione. Il primo ministro giapponese, con il quinto successo elettorale da quando è in carica, ha ipotecato virtualmente la riconferma a capo del suo partito; il campo liberale, invece, dopo lo scioglimento del Partito democratico, non è ancora riuscito a esprimere un’alternativa convincente ai conservatori. Sulla carta Abe potrebbe restare in carica fino al 2021. Il presidente cinese, da parte sua, ha messo ai margini del partito voci critiche e possibili contendenti e anche lui potrebbe estendere il suo mandato fino al 2023.
Abe-Xi tra confronto e cooperazione
Eppure, aggiunge Huang, le similitudini tra i due leader hanno spesso accentuato la rivalità tra i due paesi: le due leadership hanno preso le mosse proprio dalla contesa sulle isole Diaoyu/Senkaku, un pugno di isolette disabitate tra l’arcipelago giapponese e Taiwan; poi sono arrivati gli scontri a distanza — che in Europa e Stati Uniti hanno fatto pensare subito a un clima da vigilia di uno scontro armato tre i due paesi — sul Mar cinese meridionale e le ormai costanti gare all’accumulazione di soft power che passano anche da investimenti, aiuti economici ed esportazioni di beni di consumo. Il ritratto del dualismo Abe-Xi è la fredda stretta di mano al vertice Apec del 2014.
Da un anno almeno, però, qualcosa sembra essere cambiato. Negli ultimi incontri bilaterali Cina e Giappone hanno sempre ribadito di voler rafforzare il proprio rapporto di collaborazione mantenendolo stabile. Ad Hangzhou in occasione del G20 dell’anno scorso, le strette di mano e le espressioni facciali dei due leader sembravano più rilassate e amichevoli. Oltre a mantenere un dialogo con la controparte cinese sulla questione nordcoreana, l’amministrazione Abe sembra aver messo da parte gesti che infastidivano Pechino — ad esempio le visite al santuario Yasukuni, il luogo a Tokyo dove sono commemorate le anime dei caduti delle guerre del Giappone, criminali di guerra di classe A compresi — e pare intenzionata a sposare il progetto cinese della Nuova via della Seta, il progetto economico-geopolitico euroasiatico di Pechino.
Su questo punto è intervenuta di recente anche la giornalista cinese Hu Shuli — direttrice del settimanale Caixin, voce spesso critica nei confronti del governo cinese. Il Giappone — ha scritto — può essere un modello di riferimento per le riforme economiche di cui la Cina ha urgente bisogno. «Speriamo che i due paesi continuino a migliorare i loro rapporti per ricercare una maggiore cooperazione in ambito commerciale. I due paesi, seppur a due livelli di sviluppo differenti, stanno affrontando sfide simili in termini demografici e di transizione industriale. Il percorso scelto dal Giappone, in quanto paese più avanzato, continuerà a offrire lezioni preziose alla Cina nel suo cammino verso uno sviluppo bilanciato e verso il benessere della sua gente».
Indizi di un timido riavvicinamento? Non esattamente. Le relazioni Cina-Giappone sembrano proseguire su un canone ben avviato di cooperazione-concorrenza: a periodi di tensione — tra 2012 e 2014 probabilmente strumentali al consolidamento interno delle nuove leadership — si alternano periodi di distensione. Il paradosso è che se ci sarà una vera distensione, questa sarà stata favorita da due leader «forti» come mai si erano visti negli ultimi decenni.
di Marco Zappa
[Scritto per Eastwest]