Sui social montano le critiche al Partito comunista: tra gli under 24 la disoccupazione sarebbe al 46,5%. E allora il governo smette di comunicare i dati. Da «sdraiati» a «figli a tempo pieno»: le nuove generazioni reagiscono così alla disillusione
No data. No problem. La Cina ha deciso di sospendere la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione giovanile nel Paese dopo mesi di record allarmanti che hanno visto il tasso di disoccupazione tra i residenti dei centri urbani nella fascia di età tra 16 e 24 anni raggiungere il 21,3% lo scorso giugno.
La motivazione ufficiale, secondo quanto dichiarato il 15 agosto dal portavoce dell’ente nazionale di statistica della Repubblica popolare, Fu Linghui, è che il metodo di raccolta dei dati va rivisto e «ottimizzato». Il dubbio è se considerare tra gli “occupabili” anche i giovani non ancora diplomati che cercano lavoro e se modificare l’intervallo di età preso in esame dai sondaggi.
Pronta la reazione dei diretti interessati, che sui social cinesi hanno criticato con aperto sarcasmo la decisione del governo. Sulla piattaforma di microblogging simile a Twitter, Weibo, l’argomento ha raggiunto 240 milioni di visualizzazioni in meno di una settimana, anche se i commenti più duri sono stati “armonizzati” dalla censura del social.
TRA I PARERI più condivisi c’è chi accusa il Partito comunista cinese di «mettere la testa sotto terra» e di «indossare una benda sugli occhi» invece di risolvere il problema. Una nuova patina di incertezza poggia così sul futuro di 12 milioni di neolaureati cinesi che questa estate hanno fatto ufficialmente ingresso nel mondo del lavoro, affacciandosi su un mercato ormai saturo di colletti bianchi e dove i settori più remunerativi (educazione e big tech) hanno subito pesanti riforme.
Per non parlare di chi anche dopo anni di sacrifici negli studi (l’esame nazionale di ammissione all’università, il gaokao, è notoriamente motivo di grande agitazione per studenti e famiglie) è stato schiacciato dal peso della competizione.
Su questo è intervenuta Zhang Dandan, professoressa di Economia presso la prestigiosa Università di Pechino che in un editoriale per la testata cinese Caixin ha calcolato che includendo i giovani che non stanno studiando, facendo formazione o attivamente cercando lavoro (contando dunque i cosiddetti neet) il livello di disoccupazione tra gli under 24 in Cina arriverebbe al 46,5%.
Il tema, quello di chi ha smesso di cercare lavoro nonostante una carriera accademica invidiabile, ha trovato ampio riscontro tra la gioventù cinese. Se il governo ha cominciato a monitorare la disoccupazione urbana nel 2018, i ragazzi hanno da tempo interiorizzato la frustrazione legata al mercato del lavoro: il futuro che hanno di fronte non è quello che gli è stato promesso.
Ecco così che negli ultimi anni sul web della Rpc sono nate diverse sottoculture, che con un misto di ironia e sconforto raccontano il malcontento delle nuove generazioni. Prima è stata la volta del tangping¸ il fenomeno dello «sdraiarsi», del ribellarsi alle difficoltà della vita di tutti i giorni facendo il minimo indispensabile e abbassando i propri standard.
Poi è arrivato il bailan, «lasciar marcire», espressione che indica il gettare la spugna, l’isolarsi da una società che non si ha il potere di cambiare. Il termine è diventato virale sui social, con foto di neolaureati in posa a chiedere l’elemosina o pronti a cambiare la toga con una divisa da fattorino. Oggi invece la comunità digitale ha accolto un nuovo trend: fare i «figli a tempo pieno». Rassegnati alla disoccupazione e nel tentativo di fuggire i costi delle grandi città, in molti scelgono di occuparsi della casa e dei familiari in cambio di un piccolo salario.
TROVA UN LAVORO. Compra una casa. Compra una macchina. La trinità del sogno cinese è un modello poco attraente per Millennials e Gen Z. Il sacrificio, troppo grande. Il risultato, non garantito. E per chi il lavoro lo ha trovato, ambienti competitivi e ritmi considerati insostenibili come vuole la cultura del 996 (dalle nove di mattina alle nove di sera, sei giorni a settimana) vengono sistematicamente rifiutati, con tanto di feste di licenziamento.
Mentre con la nuova proposta di legge sull’educazione patriottica il presidente Xi Jinping prova a far presa sulle menti dei più piccoli, ai giovani cinesi non resta che il web per metabolizzare collettivamente la loro condizione: sdraiati, scaduti, traditi. E ora anche nascosti.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.