Guerra ucraina. Modi mette in crisi l’organizzazione (con Usa, Giappone e Australia) frettolosamente presentata come la «Nato asiatica». È la conferma che in Asia non tutti sono intenzionati a farsi «arruolare»
«Chiederemo al governo di ritirare tutti i militari rimasti qui per evitare che Kinmen diventi una nuova Ucraina», ha detto l’autoproclamatosi direttore della filiale della Sun Yat-sen School del piccolo arcipelago a pochi chilometri dal Fujian cinese. «Siamo sicuri che sia una scelta corretta affidare il nostro futuro a un alleato come gli Stati Uniti?», ha chiesto Hung Hsiu-chu, ex presidente del Guomindang.
O ANCORA: «Che cosa ha imparato Taiwan dall’Ucraina? Tutta la solidarietà internazionale è vuota e nessuno aiuterà in caso di guerra. Gli Stati Uniti non invieranno mai truppe perché combattere una guerra per procura è il loro migliore interesse», ha affermato l’ex militare Wu Sz-huai e deputato del Gmd.
Schegge di presa della retorica del Partito comunista a Taiwan, dove in realtà anche il principale partito d’opposizione questa volta, contrariamente al post Kabul, non sta facendo da sponda alla narrativa di Pechino secondo la quale la vicenda ucraina dimostra che Washington tradirà Taipei in caso di bisogno. Quantomeno non la dirigenza del partito, semmai imbarazzata da prese di posizione di outsider che in qualche modo gravitano nella sua orbita.
ANZI, TRA LE ULTIME NOTE ufficiali si legge il benvenuto al coinvolgimento di Taiwan nella nuova strategia dell’Indo-Pacifico degli Usa. Non un caso, visto che nelle scorse settimane la forza politica più dialogante con Pechino ha aperto un ufficio di rappresentanza a pochi passi dalla Casa Bianca, nel tentativo di rendersi «potabile» agli occhi americani in vista delle presidenziali del 2024.
Non è un mistero che quanto accada in Ucraina stia avendo un impatto psicologico sui taiwanesi. «Sì, le due situazioni sono completamente diverse ma ci sono alcuni sentimenti profondi che mi fanno mantenere l’attenzione su quanto sta succedendo lì. Questo sentimento può essere difficile da capire per persone di altri paesi», dice per esempio il giornalista William Yang.
È quell’empatia di cui ha parlato Tsai Ing-wen, che ha comunque sottolineato l’inesattezza dei paralleli tra Taipei e Kiev. Significativo che ora cambi l’approccio delle forze politiche principali. La stessa Tsai, che dopo la caduta di Kabul aveva invitato i taiwanesi a essere pronti a doversi difendere da soli, stavolta fa riferimento alle partnership con Usa e altri paesi.
FORSE NON A CASO, il cacciatorpediniere Uss Ralph Johnson passato ieri nello stretto di Taiwan: tentativo di rassicurazione. Altrettanto non a caso, Pechino sta cercando di miscelare le intimidazioni retoriche e militari con la reiterazione del proposito di «riunificazione pacifica».
D’altronde, come sempre, più la Repubblica Popolare viene percepita come una minaccia e più la maggioranza dei taiwanesi se ne allontanano. Ciò non significa che la guerra non stia causando problemi a Washington in Asia-Pacifico. Anzi.
TRALASCIANDO LA PECULIARITÀ birmana, con la giunta militare che ha persino appoggiato Putin, ci sono state timide o inesistenti reazioni sull’invasione. A eccezione di Giappone, Corea del Sud e Singapore.
Si conferma dunque che nessuno sembra intenzionato a farsi «arruolare». Nemmeno l’India, che come aveva fatto nel 2014 sulla Crimea si è astenuta sulla risoluzione di condanna delle Nazioni Unite.
Una sorta di svelamento del bluff del Quad, descritto frettolosamente come una potenziale Nato asiatica che ha invece tra i suoi membri un partner di Mosca in diversi settori, a partire da quello militare per arrivare a quello sanitario e di contrasto alla pandemia. Anche qui, come nel caso dei rapporti sinorussi, il termine «alleanza» è stato forse usato troppo in fretta.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.