Prosegue a sobbalzi la lunga marcia dei paesi asiatici verso la legalizzazione delle droghe leggere. Combattuta tra la necessità di limitare il consumo tra i giovani e la volontà di sfruttare le potenzialità economiche del settore, l’Asia si accinge ad allentare le ferree restrizioni sul commercio di marijuana per scopi terapeutici.
A guidare la regolamentazione dell’industria troviamo uno dei paesi in cui il narcotraffico è più diffuso e allo stesso tempo punito più severamente. In Thailandia il possesso, la coltivazione e il trasporto di cannabis fino a 10 kg può comportare una pena massima di 5 anni di carcere e / o una sanzione amministrativa. Nella prigione di massima sicurezza di Bangkok Klong Prem il 64% dei detenuti ha alle spalle arresti per droga e la prolungata durata delle sentenze è all’origine di una crescita esponenziale della popolazione carceraria nel paese, per un totale di 321.347 prigionieri nel 2016. Mentre la maggior parte dei casi riguarda il contrabbando di metanfetamine, da tempo il governo thailandese ha al vaglio un rilassamento delle misure, almeno per quanto riguarda le droghe leggere.
Il 9 novembre, l’assemblea legislativa nazionale ha presentato una proposta per riclassificare la marijuana come farmaco legale, consentendone la vendita e il possesso regolamentati, tanto che, secondo il Washington Post, la cannabis potrebbe diventare disponibile previa licenza addirittura entro la fine dell’anno. Se così fosse, la Thailandia diventerebbe la prima nazione asiatica a legalizzare il consumo terapeutico, spianando la strada a un mercato interno che già nel 2024 potrebbe raggiungere i 5 miliardi di dollari.
Un primato che Bangkok rischia di vedersi strappare dalla Malaysia, dove proprio lo scorso mese il governo di Mahathir Mohamad ha abolito la pena capitale per tutti i reati, compreso il narcotraffico. La possibilità di rimuovere le restrizioni sul commercio per fini medici è già stata introdotta informalmente nell’agenda di governo con il pieno appoggio del ministro delle Risorse naturali Xavier Jayakumar. Complice il caso di Muhammad Lukman, condannato a morte lo scorso agosto per aver venduto olio di cannabidiolo a pazienti affetti da malattie come il cancro e la leucemia.
Sebbene con più cautela, anche altri paesi asiatici storicamente conservatori si avviano verso una progressiva apertura. Stando al South China Morning Post, se la Corea del Sud sta valutando la possibilità di modificare le leggi nazionali in modo da legalizzare le importazioni di medicine contenenti cannabinoidi, in Giappone, dove l’uso di cannabis è illegale, una quarantina di agricoltori ha già ottenuto le licenze necessarie alla coltivazione, mentre nello Sri Lanka lo scorso aprile il ministro della Salute ha annunciato che la produzione della cannabis terapeutica inizierà entro la fine dell’anno. Persino in Cina, dove la leadership di Xi Jinping è impegnata in una campagna moralizzatrice spiccatamente proibizionista, le province dello Heilongjiang e dello Yunnan – stando ai dati ufficiali dell’Ufficio nazionale di statistica – contano già per quasi la metà delle piantagioni di canapa destinate legalmente a uso commerciale a livello globale.
Il motivo è semplice. Secondo Grandview Research, nel 2025 il mercato mondiale della marijuana per scopi terapeutici è destinato a raggiungere i 55,8 miliardi di dollari, pari a un terzo di tutte le transazioni legali. D’altronde, fino al divieto internazionale del 1961, nel continente asiatico il consumo della ganja (cannabis in sanscrito) era estremamente comune tanto nei rituali religiosi quanto nell’ambito delle usanze contadine.
Nulla sembra, tuttavia, suggerire un ripensamento circa l’impiego della marijuana per fini ricreativi. Da quando il Canada è diventato il secondo paese a legalizzare la cannabis i governi di Seul, Pechino e Tokyo hanno diramato severi avvertimenti per i cittadini sudcoreani, cinesi e giapponesi, intenzionati a farne uso durante il loro soggiorno estero. Chi viene scoperto a fumare erba rischia fino a cinque anni di carcere una volta tornato in patria, hanno intimato giorni fa le autorità sudcoreane.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.