Dal dopoguerra a oggi sono stati l’emblema del successo economico giapponese, il simbolo della classe media emergente. Impiegati non specializzati, abituati al posto fisso, i sarariman oggi sono un modello sorpassato. E si ritrovano a vivere in un’economia che non è più quella che loro stessi hanno contribuito a costruire. Addormentati, storditi dall’alcol e dalla stanchezza, sull’ultimo treno del venerdì sera. O persi nel frastuono delle sale da pachinko, tra luci abbaglianti e rumori di biglie metalliche che cozzano. I sarariman (dall’inglese "salary man") giapponesi, l’ultimo baluardo del "lavoro a tempo indeterminato" sono ormai sorpassati. E ora, invece di essere il simbolo del boom economico e dell’instancabile classe lavoratrice del proprio paese, sono oggi diventati il simbolo della crisi di un’intero paese.
Il caso Olympus e la fragilità di un sistema
Ed anzi di quella crisi sarebbero i veri responsabili. Non sono in pochi ad additarli perfino come rei del fallimento delle aziende che in cui lavorano da decenni. Oggi n Giappone c’è chi sostiene che il modello che questi rappresentano sia "inadatto" all’economia globale.
Passi la crisi economica globale, la vera ragione del rallentamento del Paese del Sol Levante sarebbe quindi endogena e si troverebbe proprio nell’incapacità di rinnovamento della classe dirigente e di tutto il sistema che essa cerca disperatamente di salvaguardare.
Ottobre 2011, Michael Woodford, primo amministratore delegato straniero della Olympus, colosso delle macchine fotografiche e delle attrezzature mediche, viene licenziato. Aveva fatto notare ai vertici dell’azienda che nei bilanci qualcosa non tornava. Per vent’anni, l’azienda aveva nascosto un buco di quasi 2 miliardi di dollari.
Lo scandalo Olympus ha avuto un effetto immediato: mettere ancora più chiaramente in luce alcune disfunzioni del sistema aziendale nipponico. Una classe dirigente con un approccio sbagliato al business e una diffusa mancanza di etica professionale; una forza lavoro sempre meno dinamica, perché sempre più vecchia, e quindi destinata a ridursi. I dati sono allarmanti: secondo le previsioni, entro il 2015, circa un quarto della popolazione giapponese sarà over-65. E mentre la stagnazione continua, sempre più lavoratori vengono assunti con contratti a tempo determinato.
Non è un caso che il tasso di disoccupazione (4,1 per cento, dati di aprile) oggi sia il più alto della storia del Paese.
L’Olympus è stato il caso più emblematico della crisi di tutto il settore dell’hi-tech. Aziende come Sony, Toshiba, Sharp, Panasonic e Hitachi, un tempo competitive nell’esportare la migliore tecnologia all’estero, negli ultimi anni si ritrovano surclassate dai concorrenti americani e coreani. La ragione? Tutta colpa, sostiene qualcuno, del "modello sarariman". Un modello ormai insostenibile, fondato sul valore dell’anzianità aziendale e del posto fisso, tutti valori che appartengono al passato e non più all’era della globalizzazione.
Samurai dal colletto bianco
Fino agli anni ’60 diventare un sarariman non solo equivaleva a uno stipendio sicuro. Era sinonimo di successo, prestigio e, perché no, anche di eroismo. I sarariman erano nel dopoguerra ciò che i samurai erano stati prima dell’epoca Meiji (1868-1912), prima che il nuovo governo imperiale li trasformasse in funzionari pubblici. La valigetta era la loro spada, l’interesse dell’azienda come il volere del signore feudale.
Fu Ezra Vogel, oggi professore emerito di Scienze sociali ad Harvard, nei primi anni ’60 a tracciare questo paragone. Insieme alla moglie, il sociologo statunitense tra il 1958 e il 1960 studiò da molto vicino la nascita della nuova classe media giapponese. Lo fece osservando da vicino la comunità di un sobborgo di Tokyo abitato principalemente da famiglie di impiegati di grandi aziende private e della pubblica amministrazione. Nel suo libro intitolato Japan’s New Middle Class: the Salary Man and His Family in a Tokyo Suburb, Vogel prese in considerazione non solo le dinamiche familiari ma tutto il sistema di valori della middle-class nipponica.
"Il concetto del samurai – scriveva Vogel – aveva in sé qualcosa di guerresco, e l’idea era che dovesse essere sfrontato, coraggioso e capace di azioni indipendenti. Il salary man è parte di una grande organizzazione burocratica. È più preoccupato di complessi problemi tecnico-amministrativi e ha meno spazio per il movimento indipendente."
Ed è proprio questo atteggiamento oggi al centro delle critiche. Nessuna spinta a rendersi indipendenti dal "sistema", a sviluppare un’elasticità di pensiero al di là del singolo incarico quotidiano. Già Vogel lo notava: i sarariman "sono più impegnati nelle singole attività quotidiane piuttosto che nella formulazione di una chiara filosofia di vita".
Fare come in Svezia
"Ancora qualche anno e i sarariman si estingueranno", scriveva qualche mese fa Tachibana Akira, scrittore di romanzi e commentatore economico, sulla rivista President.
Nell’articolo si leggevano parole che suonavano come un requiem al simbolo della classe media giapponese. "Voglio che l’anno 2013 sia l’anno in cui riconsidereremo lo stile di vita del salary man", aggiungeva Tachibana. Per l’autore, nel Giappone dell’era globalizzata i sarariman non servono più. A loro manca una qualsiasi professionalità, sono meri generalisti "adattati" alla singola azienda. E una volta al di fuori di questa, qualsiasi capacità ed esperienza da loro accumulate perdono totalmente di valore.
Per questo oggi i lavoratori giapponesi non devono adagiarsi nella comodità del posto fisso ma cercare di rimettersi in gioco, chiedersi dove stia il "proprio personale capitale umano". Il modello deve essere il Nord Europa: "In Svezia, ad esempio – concludeva Tachibana – chi ha quarant’anni e non vede più un futuro nella propria professione lascia l’azienda e ritorna all’università. E dopo aver aumentato il proprio livello di professionalità, ritorna nel mercato del lavoro".
E se non sarà un’estinzione autoindotta, sarà la Abenomics, la politica economica aggressiva lanciata a dicembre 2012 dal primo ministro Abe Shinzo, a dare il colpo di grazia alla classe media giapponese. Finora Abe, nonostante i recenti crolli in borsa ha ottenuto ciò che voleva: un deprezzamento dello yen per favorire le grandi corporation giapponesi, leader dell’export nazionale. La paura (fondata) di alcuni osservatori è che la Abenomics possa aggravare il problema della povertà: l’Ocse lo ha calcolato al 15,7 per cento, molto oltre la media dei paesi membri.
Privilegiando i più grandi e i più ricchi, è inevitabile dimenticarsi dei più deboli. Anche di quella classe media che dopo aver lavorato infaticabile per anni, oggi rischia di essere dimenticata sui sedili dell’ultimo treno per tornare a casa.