"Per molto tempo – ha scritto Kerry – ho condiviso il parere che la regione artica sia l’ultima frontiera globale". Così comincia la guerra, diplomatica, economica e commerciale per l’Artico. Russia, Unione europea, Repubblica popolare cinese e Stati Uniti si contendono la regione che nasconde il 13 per cento del petrolio e il 30 per cento del gas naturale non ancora sfruttato.
Qing Quentin Huang è un cittadino canadese di origini cinesi. Emigrato dalla Cina a Singapore e poi successivamente in Canada, è un ingegnere navale. La sua carriera ha cominciato a produrre i suoi frutti quando è stato assunto dalla Loyd Registered Canada.
Il suo ruolo era chiaro e importante: doveva occuparsi delle navi canadesi impegnate nell’Artico. Huang però, dopo un periodo relativamente tranquillo, ha provato a fare un passo più in là, più rischioso e difficile: servire, forse, il suo paese di origine. Si sarebbe infatti recato all’ambasciata cinese in Canada e avrebbe passato informazioni a Pechino, riguardo l’organizzazione canadese delle proprie flotte artiche. Incriminato di spionaggio dal Canada, è diventato il protagonista di una diatriba internazionale.
La Cina ha sempre negato di averlo assoldato. Colpevole o meno, spia o ingenuo, la storia di Huang dimostra alcuni cambiamenti importanti per quanto riguarda la zona artica. La prima di tutte è che l’Artico è ormai diventato un contemporaneo scacchiere politico, dove le principali potenze mondiale sfoggiano muscoli, arte diplomatica e peso economico, per mettere le mani su alcuni beni preziosi di quella zona: idrocarburi, passaggi mercantili, terre rare, zone di pesca. L’Artico – ormai – di conseguenza, è ormai «globalizzato», frutto di un processo politico che pone la zona al centro di intricati calcoli diplomatici ed economici.
A dimostrare questo cambiamento epocale, dove ogni potenza mondiale fa una mossa, cui segue una contromossa degli avversari, la spinta e la determinazione che ultimamente è stata impressa dagli Stati Uniti. Il Segretario di Stato Usa John Kerry, a metà febbraio ha inviato due lettere a Mark Begich e Lisa Murkowski, i due senatori dell’Alaska, lo stato più settentrionale degli Stati Uniti, dichiarando la sua intenzione di nominare un «personaggio di alto livello di notevole statura e competenza» affinché diventi il rappresentante «speciale» degli Usa nell’Artico.
Kerry ha chiesto suggerimenti a Begich e Murkowski per trovare il candidato giusto. «Per molto tempo, ha scritto il segretario di Stato Usa, ho condiviso il parere che la regione artica sia davvero l’ultima frontiera globale, e abbiamo bisogno di elevare la nostra attenzione e lo sforzo per tenere il passo con le opportunità e le conseguenze presentate dalla rapida trasformazione dell’Artico».
La regione – «se correttamente gestita», ha specificato Kerry – offre infatti l’opportunità di «una leadership diplomatica creativa: sarà necessario fare della regione artica una priorità degli Stati Uniti; una maggiore attenzione sarà prestata dai responsabili politici di alto livello e, in linea con il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, arriverà un chiaro invito all’unità nazionale al riguardo». La guerra, diplomatica e commerciale, per l’Artico è ormai partita.
Il Consiglio Artico
Nato come organo di protezione ambientale delle zone di competenze, anche il Consiglio Artico si è piegato alla realtà del mondo contemporaneo. A portare a queste conseguenze un organo nato con finalità differenti, hanno contribuito alcuni fattori determinanti: in primo luogo la ricchezza di risorse, poi i passaggi mercantili. Di conseguenza non sono solo i paesi che si affacciano nella zona, ad essere interessati a quanto succede da quella parti.
Così nel 2013 è arrivata una prima svolta, che in realtà ha significato due importanti cambiamenti. Alcuni paesi sono stati ammessi al ruolo di membri del Consiglio come osservatori. Non hanno diritto di voto e di veto, ma queste sottigliezza tecniche contano poco se uno di loro è la Cina e può influenzare il quadro, attraverso accordi bilaterali (come quello con l’Islanda).
Tra gli altri paesi ammessi anche India, Italia, Giappone, Corea, Singapore e l’Unione europea. Il cambiamento più importante però non è avvenuto per quanto riguarda i membri, bensì per quanto concerne la modalità di intervento del Consiglio. L’Artico non è più il set di politiche di impronta ambientalista: è diventato un territorio di contesa. Ed ecco che con la risoluzione del maggio 2013 il Consiglio legittima e riconosce «il ruolo centrale dell’economia nello sviluppo dell’Artico», dando la stura alla «globalizzazione dell’Artico» (come spiegano bene Juha Käpylä e Harri Mikkola del Finnish Institute of International Affairs in un loro paper). Di fatto, la decisione del Consiglio Artico, è un via libera ai più golosi.
I contendenti: Russia
Nel settembre del 2013 è arrivato l’annuncio di Putin: Mosca – dopo vent’anni – ha inviato dieci navi da guerra e quattro rompighiaccio a propulsione nucleare nell’arcipelago di Novosibirsk, importante snodo commerciale nel distretto siberiano. «Le nostre forze – ha spiegato il presidente russo – hanno lasciato l’area nel 1993 ma nel frattempo l’Artico è divenuto un nuovo stadio nello sviluppo della via marittima settentrionale». La Russia è il paese che più di tutti parte avvantaggiato e non ha esitato a difendere anche militarmente la propria posizione.
L’Artico pesa e non poco nella politica economica del paese e nella possibilità da parte di Mosca di giocare un ruolo da protagonista sulla scena mondiale, specie per quanto riguarda l’energia. Più del 20 percento delle riserve di idrocarburi starebbe infatti in quello che viene definito come l’Artico russo. Si tratta di risorse preziose per Mosca: solo il petrolio e il gas rappresentano il 25 percento del Pil nazionale.
L’Artico russo sarebbe quindi responsabile del 10 percento del Pil russo e rappresenterebbe il 25 percento della forza esportatrice in termini energetici del paese. La Russia però ha attivato progetti comuni per sfruttare al meglio le risorse in quella che viene considerata la sua zona, mettendo in evidenza un limite della sua forza nell’area: gli strumenti tecnologici e gli investimenti necessari, che arrivano solo tramite cooperazioni internazionali. La Russia ha bisogno di know how ed è gioco forza costretta a ricorrere ad altri paesi.
Cina, Stati Uniti e Unione europea
Per quanto riguarda Pechino, la strategia è quella di un orientamento rivolto al futuro. In questo momento la Cina è concentrata sull’area asiatica del Pacifico, dove è costretta a tenere a bada la strategia pivot to Asia di Obama, ma la consuetudine dei governanti cinesi è sicuramente la lungimiranza. L’interesse cinese nei confronti dell’Artico è di natura specificamente economica. In primo luogo le rotte commerciali, ma anche i depositi di terre rare e risorse, nonché le zone di pesca.
Non è un caso che Pechino stia lavorando da tempo all’avvicinamento nell’area: nel 2013 ha infatti stretto un accordo di libero commercio con l’Islanda, una sorta di piede nella porta artica. Gli investimenti cinesi fanno gola all’Islanda – e non solo a loro – che in cambio lascia il via libera a Pechino alle proprie miniere, risorse e un balcone sull’Artico. Inoltre, Pechino ha recentemente ultimato un porto in Corea del Nord, alleato scomodo, ma utile, che potrebbe diventare un importante hub per il futuro commercio marittimo artico.
La Cina al momento non ha il potere di voto all’interno del Consiglio artico, ma secondo gli esperti è il paese che presumibilmente spingerà di più per contare negli equilibri diplomatici di quella zona. Da potenza economia che convive con aree nazionali da paese in via di sviluppo (l’Ovest e l’interno) è quello che più di tutti avrà bisogno di risorse.
Infine, l’Unione europea. Come specificato da Juha Käpylä e Harri Mikkola, «la Ue non è mai stata particolarmente interessata alla governance della zona artica, né è mai stata considerata dagli altri paesi artici», ma poiché il 90 percento del commercio europeo è via mare, Bruxelles ha cambiato l’approccio, diventando un altro player nella guerra per il controllo dell’Artico. Questa attenzione, per altro, secondo i due studiosi potrebbe avere effetti negativi principalmente sulle popolazioni indigene, che perderanno via via il controllo ambientale, in un’area in cui si giocheranno destini mondiali.
[Scritto per il manifesto]