“Vogliamo che l’Oceano Artico diventi un altro Mar cinese meridionale?!” E’ andato dritto al punto Mike Pompeo, alla viglia dell’ultimo vertice che due settimane fa ha riunito in Finlandia il Consiglio Artico, il forum intergovernativo che promuove il coordinamento e l’interazione tra gli Stati che si affacciano sul Polo Nord. Comparando le acque che bagnano la regione artica al tratto di mare scosso da rivendicazioni territoriali tra Cina e vicini rivieraschi, il segretario di Stato americano ha dirottato l’attenzione sulla “competizione tra potenze globali” che minaccia la stabilità del quadrante. Per Pompeo, l’aggressività di Pechino e Mosca impone un maggiore presenzialismo americano nell’area in qualità di “gendarme”. Tanto più che le pretesi cinesi si baserebbero sull’erronea rivendicazione di un ruolo all’interno di una comunità che prevede unicamente “stati artici e stati non artici”.
Sebbene disti 1.450 chilometri dall’Artide, la Repubblica popolare è membro osservatore del Consiglio Artico dal 2013 oltre ad essere uno dei paesi più attivi nella regione con quasi 90 miliardi di dollari investiti tra il 2012 e il 2017. Le ragioni dell’interesse cinese sono molteplici. Non solo si stima che nell’Artide sia conservato un quarto delle riserve di petrolio e gas naturale del mondo. L’inesorabile scioglimento dei ghiacci che bordano la costa russa sta aprendo un passaggio marittimo tra Asia orientale ed Europa (la rotta del Mare del Nord) potenzialmente più breve del 40 per cento rispetto all’attuale percorso attraverso il Canale di Suez. Insomma, sembra che Pechino beneficerà non poco dai cambiamenti climatici a cui ha dichiarato guerra facendo promotrice dell’accordo di Parigi.
Poco più di un anno fa, infatti, il governo cinese ha emesso il primo libro bianco sull’Artico, introducendo il concetto di “via della seta polare”. Un progetto di cooperazione globale nel quadro dell’iniziativa Belt and Road (BRI) volto a rendere le gelide acque del Nord “importanti rotte di trasporto per il commercio internazionale”.
Considerata la diffidenza con cui Washington ha accolto l’iniziativa infrastrutturale a guida pechinese, la preannunciata inclusione della regione artica accresce comprensibilmente l’irritazione dell’amministrazione Trump, impegnata a screditare le politiche cinesi su più fronti, dal piano industriale “made in China 2025” all’espansionismo nei mercati emergenti. L’assenza di un trattato internazionale sull’uso pacifico delle risorse del Mar Glaciale Artico – nell’Antartide esiste dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso – rende la regione anche più esposta alle mire cinesi. Di varia natura.
A pochi giorni dal meeting del Consiglio Artico, il Pentagono ha consegnato al Congresso americano un rapporto in cui l’attivismo cinese nel quadrante viene descritto come il preambolo di “una presenza militare rafforzata che include il dispiegamento di sottomarini per agire come deterrente contro attacchi nucleari”. Il report cita nello specifico le preoccupazioni diffuse per l’interessamento cinese nei confronti della Groenlandia, dove Pechino vorrebbe stabilire stazioni di ricerca, espandere le infrastrutture aeroportuali e sviluppare attività minerarie. Ma per Washington l’insolito presenzialismo della Cina va letto alla luce della vertiginosa espansione della marina cinese che oggi conta quattro sottomarini con missili balistici a propulsione nucleare, sei sottomarini d’attacco a propulsione nucleare e 50 sottomarini convenzionali d’attacco.
Lo scorso settembre, annunciando il taglio del nastro della prima nave rompighiaccio di produzione cinese – Xuelong 2, o Drago delle Nevi II, l’unica nave per la ricerca polare al mondo a poter rompere il ghiaccio in entrambi i sensi di navigazione – il South China Morning Post, ricordava come contestualmente Pechino sarebbe impegnato nella produzione di una nave da carico rompighiaccio a propulsione nucleare. Un primo possibile passo verso la realizzazione di una portaerei con tecnologia analoga.
Mentre l’allarmismo di Pompeo riflette la nuova postura estera americana, secondo il Wall Street Journal, le preoccupazioni di Washington sarebbero parzialmente condivise dalla NATO, soprattutto alla luce di un evidente riavvicinamento (economico e geostrategico) della Cina alla Russia, vero protagonista nel Mar Glaciale Artico. Specialmente, per quanto riguarda le estrazioni di gas naturale, concentrato nella zona economica esclusiva di Mosca e trasportato ai porti per lo scarico unicamente da navi registrate in Russia. Con la “via della seta polare” la Cina è diventata di fatto il primo paese a scardinare il monopolio russo, avviando negoziati per la costruzione congiunta di nuovi scali marittimi e infrastrutture destinati a facilitare il trasporto del gas russo verso l’ex Celeste Impero. Il tutto in un’area dove Mosca vanta strutture militari in oltre 500 punti diversi.
“Una competizione tra potenze?”, commentava Gao Feng, rappresentante speciale per la Cina al Consiglio, facendo eco alle parole di Pompeo, “Ok, allora vediamo un po’ chi riuscirà a farsi più amici”.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.