A quattro giorni dal risultato delle presidenziali americane, la Cina rimane tra quei pochissimi paesi a non aver ancora omaggiato Biden dei rituali auguri. “Comprendiamo che il risultato delle elezioni sarà determinato in base alla legge e alle procedure statunitensi” ha spiegato il ministero degli Esteri cinese, alludendo alla battaglia legale avviata da Trump per contestare il voto. D’altronde, in quei 70 giorni prima dell’insediamento ufficiale del presidente eletto potrebbe ancora succedere di tutto. Soprattutto conoscendo gli sbalzi d’umore di The Donald.
Ma il silenzio cinese suggerisce scarse aspettative nei confronti di “Sleepy Joe”, frequentatore del paese asiatico fin dal ’79, prima come senatore, poi come vicepresidente ai tempi del “Pivot to Asia” di Obama che nel 2011 riportò gli States nella regione dopo dieci anni di guerra al terrorismo islamico. Pechino lo sa bene: un nuovo inquilino alla Casa Bianca non cambierà il corso delle cose. Sulla Cina incombe l’etichetta di “rivale strategico” con consenso bipartisan. Ma la vittoria di un presidente “old school” sancirà verosimilmente un ritorno di Washington ai tavoli interazionali, creando nuove occasioni di dialogo dopo quattro anni di guerra commerciale, sanzioni economiche varie, provocazioni militari nel Mar cinese e la minaccia di un “decoupling tecnologico”.
Secondo la stampa semiufficiale, il ricambio nello Studio Ovale concederà un po’ di “respiro”. Quanto lo spiegava tempo fa Biden su Foreign Affairs, preannunciando tolleranza zero per i “comportamenti abusivi e le violazioni dei diritti umani”, ma aprendo alla cooperazione su questioni di interesse convergente, come “il cambiamento climatico, la non proliferazione nucleare e la sicurezza sanitaria globale”.
Tradotto dalle parole ai fatti, mentre la porta rimane chiusa su Hong Kong e Xinjiang, non è da escludere una riapertura dei negoziati commerciali fortemente voluta tanto dalle aziende americane (vere vittime dei dazi sul Made in China), quanto da Pechino, incapace di soddisfare i termini concordati prima che Covid paralizzasse l’economia mondiale. Non solo. Come anticipato, un ritorno di Washington negli accordi di Parigi e all’Oms faciliterebbe una normalizzazione delle relazioni bilaterali, coltivate dietro le quinte dalla comunità scientifica.
Ma un nuovo protagonismo americano nelle organizzazioni internazionali presenta altrettante criticità. Nel suo manifesto programmato, Biden aspira “a rinnovare la democrazia e le alleanze statunitensi, proteggere il futuro economico degli Stati Uniti e ancora una volta a fare in modo che l’America guidi il mondo”. Ovvero, a scongiurare il sorpasso della seconda economia mondiale.
In Asia l’amministrazione Trump si è mossa come un elefante in una cristalliera, alternando minacce commerciali e richieste di “esclusività” nei rapporti bilaterali al corteggiamento opportunistico di Taiwan e dei paesi con cui Pechino ha aperti contenziosi territoriali. Ora, da Tokyo a Giacarta, Washington dovrà riconquistare la credibilità persa. A “Sleepy Joe” l’arduo compito.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.