«Chiamala libertà, ma è fondata sul controllo. Tutti connessi insieme, impossibile che si perda qualcuno, non può più succedere. Fai il passo seguente, connettilo ai telefoni cellulari, e avrai un Web completo di sorveglianza cui non si potrà sfuggire». È quanto sostiene il padre di Maxine, protagonista di Bleeding Edge (La cresta dell’onda) l’ultimo romanzo di Thomas Pynchon, pubblicato nel 2014 e ambientato negli Stati Uniti del 2001.
Pynchon, considerato uno degli ispiratori del cyberpunk, gioca d’anticipo, immaginando nel 2001 le traiettorie che oggi vediamo compiutamente realizzate. La ricchezza delle informazioni, le paranoie ai tempi del Deep Web riscontrano le istanze di corse rapide da parte di chi detiene i dati, il nuovo petrolio – come li ha definiti Lee Kai Fu, guru e venture capitalist dell’intelligenza artificiale cinese.
E DIRE DATI OGGI, significa dire Cina. E con esso significa dire noi: che ne sarà dei nostri dati, in generale, e che ne sarà dei nostri dati se finiscono in Cina e che ne sarà dei dati cinesi che finiscono nelle mani di paesi terzi? Lo scontro sull’accaparramento dei Big Data non è solo un turbine di giochi sporchi a livello di software e di spionaggio industriale: ha anche un suo risvolto più complicato che è quello legislativo.
I paesi provano a proteggere i propri dati da usi indiscriminati da parte di altre paesi. Si dice per proteggere i cittadini; vero, ma non manca l’aspetto business, come in un gioco senza fine: si vogliono incamerare tutti i dati possibili e si prova a fare sì che gli altri paesi ne incamerino di meno.
Più dati significa più nutrimento per le macchine, bramose di informazioni per capire meglio il mondo, noi, i nostri gusti, i nostri consumi, le nostre idee. Più dati significa più Intelligenza artificiale, più Internet delle cose, più smart city, più punti di Pil e più disuguaglianza probabilmente.
Tornando a Pynchon: nel 1984 lo scrittore americano pubblicò un articolo sul luddismo sul New York Times (Is it ok to be a luddite?) nel quale esplicita la propria visione: i luddisti non erano contro la rivoluzione industriale, erano contro il capitalismo. Ugualmente, oggi, interessarsi di dati, cercare di difenderli e provare a concepire strumenti di gestione trasparenti e consapevoli, non significa porsi contro il tempo e l’avanzare delle tecnologie e del post-umano, quanto porsi contro il capitalismo nella sua forma più avanzata, quello «di sorveglianza».
LA CINA IN QUESTO CAMPO costituisce un valido esempio di come potrà essere in futuro il mondo dove i dati comandano. Al riguardo – oltre al peso geopolitico – contano anche i risultati: La Cina oggi raccoglie il 23% dei flussi di dati transfrontalieri, quasi il doppio della quota degli Usa, che si collocano al secondo posto con il 12%. Il sorpasso sarebbe avvenuto nel 2019, secondo un’indagine di Nikkei Asia e TeleGeography.
La fonte del potere di Pechino risiederebbe «nelle sue connessioni con il resto dell’Asia. Mentre gli Usa rappresentavano il 45% dei flussi di dati in entrata e in uscita dalla Cina nel 2001, tale cifra è scesa solo al 25% lo scorso anno. I paesi asiatici ora rappresentano più della metà del totale, in particolare il Vietnam al 17% e Singapore al 15%».
TUTTO QUESTO È ACCADUTO grazie ai «campioni» cinesi di servizi on line (e in grado di raccogliere una massa di dati incredibile) come la piattaforma di pagamento mobile Alipay dello spinoff di Alibaba Ant Group (di recente sotto tiro da parte delle autorità bancarie di Pechino), disponibile in più di 55 paesi e utilizzata da 1,3 miliardi di persone. Nel settore, in Cina, comandano loro: Alibaba gestisce il 55% dei pagamenti on line e Tencent (l’azienda di WeChat) il 40%.
Per quanto riguarda la gestione dei dati, da tempo soprattutto l’Ue chiede una sorta di reciprocità alla Cina; va letta in questo senso la recente bozza – solo disponibile in mandarino – sulla protezione dei dati di Pechino che, secondo gli analisti che ne hanno analizzato i particolari, sarebbe piuttosto vicina al Gdpr europeo, benché con un buco piuttosto ambiguo per quanto riguarda l’uso che dei Big Data può fare il governo.
Per Giorgio Resta, professore ordinario di diritto privato comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre, «si tratta indubbiamente di un passo avanti anche se l’impressione è che la bozza segua l’impostazione che emergeva in passato, ovvero un’idea di trattamento dei dati sullo stile europeo ma con caratteristiche cinesi: c’è una crescente attenzione ai diritti individuali nei rapporti con le imprese ma una sostanziale delega in bianco alle autorità pubbliche grazie alle clausole di sicurezza e segretezza in ambito pubblico».
La proposta di legge introdurrebbe misure restrittive nei confronti delle aziende, con multe salate per chi ne violerà le direttive, ma non prevede un organo di garanzia indipendente. «È interessante – prosegue Resta – il discorso legato all’extra territorialità, che dimostra come gli europei abbiano creato una governance globale dei dati e giustamente i cinesi ora si pongono sulla stessa linea: in questo modo qualsiasi azienda straniera che si rivolga al loro mercato interno è sottoposta alle leggi cinesi. Si tratta di un lento passaggio dalla rule by law a una nascente rule of law».
LA LEGGE, però, non terrebbe in adeguato conto un altro tema molto caldo in Cina, ovvero il riconoscimento facciale. Come hanno riportato i media nazionali, un sondaggio dello scorso anno ha rilevato che una grande maggioranza di intervistati temeva che la tecnologia aumentasse i rischi che i propri dati facciali possano essere utilizzati per quel fenomeno noto come «deepfacking». In teoria la legislazione cinese sancisce il cosiddetto «principio del consenso informato» ma non c’è alcuna specificazione per quanto riguarda i dati biometrici.
Analogamente la bozza non richiederebbe «a coloro che installano la raccolta di immagini e le apparecchiature di identificazione personale in aree pubbliche di ottenere il consenso delle persone prima di raccogliere i loro dati facciali, a condizione che possano dimostrare che le loro azioni sono necessarie per tutelare la sicurezza pubblica». In questo senso secondo Giorgio Resta, la bozza «ricorda paradossalmente la vicenda europea della videosorveglianza, con l’aggravante che qui si tratta di tecnologie più invasive e non è fissato alcun limite sostanziale, poiché la protezione dei dati non è costruita come diritto fondamentale e manca una tutela costituzionale dei diritti».
SIAMO DI FRONTE a un dilemma. Secondo Jiang Xiaojuan, membro del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, «Il riconoscimento facciale è attualmente richiesto in troppi scenari e tutti si sentono a disagio, benché abbia anche vantaggi, come ad esempio l’individuazione di bambini scomparsi». È questo l’ambito di maggior successo del riconoscimento facciale, unito alle tecniche di computer grafica in grado di proiettare sul volto del bambino i cambiamenti avvenuti con l’avanzare degli anni, consentendo così il ritrovamento di persone scomparse.
QUANTO SORPRENDE, trattandosi di Cina, è l’attenzione che alcuni legislatori hanno manifestato di recente rispetto al tema. Wang Chaoying – un altro membro del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale – ha sottolineato la necessità di una legge in grado di «ridurre al minimo la quantità di dati raccolti» e in grado di stabilire «le circostanze in cui i dati verranno raccolti, come verranno salvati e conservati e chi è legalmente responsabile in caso di fuga di dati».
La rivista Caixin ha anche sentito un esperto secondo il quale «gli algoritmi intelligenti emergenti possono combinare i dati facciali individuali con altre informazioni personali per tracciare i movimenti e il comportamento delle persone, o discriminarli in base all’etnia o alla malattia». Il riconoscimento facciale metterebbe «un peso psicologico sul soggetto che viene filmato – una paura dell’ignoto», un arcobaleno dei Big Data.
L’IMPORTANZA di queste considerazioni è fuori di dubbio: nel paese nel quale il riconoscimento facciale è usato per «la verifica dell’identità delle persone quando utilizzano servizi di trasporto internazionale, effettuano il check-in in hotel o si iscrivono a servizi di messaggistica istantanea come WeChat», quindi ha un suo risvolto quotidiano, gli interrogativi che pongono alcuni legislatori sono ancora più importanti, oltre a dimostrare come non sia assolutamente vero che in Cina ogni decisione venga accettata senza battere ciglio.
Anzi, sarebbe il caso di osservare da vicino cosa accade in Cina, considerando come ormai questi strumenti (per non parlare delle smart city) si stiano ormai avvicinando anche alle nostre vite. Nell’attesa di capire se la Cina dopo aver agguantato le misure europee, sempre che lo faccia, sarà in grado di proporre qualcosa di nuovo sul tema.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.