Dopo 20 anni Singapore cambierà primo ministro, e per la prima volta il partito al governo potrebbe avere qualche difficoltà. Si combatte ancora a Myawaddy, tra Myanmar e Thailandia, l’accordo di Duterte con la Cina, l’opposizione si unisce in Pakistan, la corruzione in Vietnam e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente (clicca qui per le altre puntate)
Il 15 maggio Singapore avrà un nuovo primo ministro, il quarto della sua storia. Come è sempre accaduto dall’indipendenza della città-stato (1965) a oggi, anche in questo caso il passaggio di consegne da un premier a un altro non sarà dovuto al risultato di un’elezione, o a un voto di sfiducia in parlamento. Per la terza volta da quando è al potere, cioè da sempre, il Partito Popolare d’Azione (PAP) ha programmato con cura e largo anticipo il cambio di leadership, che passerà nelle mani della “quarta generazione” (4G) di leader del partito.
Lo scorso 15 aprile l’attuale premier Lee Hsien Loong, in carica dal 2004, ha annunciato che lascerà il posto a Wong Shyun Tsai, per tutti Lawrence Wong. A sottolineare come tutto sia stato organizzato nei minimi particolari, con un mese di anticipo si è già a conoscenza dell’orario in cui si terrà la cerimonia di giuramento nel palazzo presidenziale di Singapore, cioè alle 20:00 del 15 maggio, appunto. Wong diventerà così il quarto primo ministro nella storia del paese, il secondo a non essere un membro della famiglia Lee.
Lee Hsien Loong è infatti il figlio maggiore di Lee Kuan Yew, salito al potere nel 1959 e primo premier della storia indipendente della Repubblica di Singapore, divenuta uno stato autonomo nel 1965 a seguito della scissione dalla Malaysia. Il PAP governa ininterrottamente da allora, in modo autoritario, legittimato dall’enorme crescita economica della città-stato, che nel corso dei decenni ha trasformato in uno dei principali centri finanziari del mondo. Nonostante la repressione sistematica delle opposizioni e la stretta sui diritti civili, a Singapore si tengono regolarmente delle elezioni, che il PAP ha sempre stravinto, monopolizzando il parlamento. Le prossime sono previste entro novembre del 2025, ma potrebbero essere anticipate.
Il cambio di leadership avviene forse nel momento più delicato della storia del PAP. Intanto, al contrario di quello che accadde durante il passaggio di consegne nel 1990 tra Lee Kuan Yew e il suo successore, Goh Chok Tong, la storica presa della famiglia Lee sul partito sembra destinata a svanire nel prossimo futuro. All’epoca Goh nominò subito Lee Hsien Loong come suo vice, rendendo già chiaro come sarebbe stato lui il futuro leader del PAP e premier del paese, con un oltre decennio di anticipo.
Come scrive Jom, oggi invece non sembrano vedersi all’orizzonte degli eredi dei Lee pronti a mantenere il PAP un bene di proprietà della famiglia anche nei decenni a venire. Questo farà di Wong il primo premier a non avere connessioni esplicite con i Lee, anche se è probabile che, almeno per i prossimi anni, Lee Hsien Loong continuerà a esercitare la sua influenza sul PAP e quindi sul paese.
Complice anche questa situazione, il partito ha iniziato a mostrare segni di fragilità. Wong non era la prima scelta per il cambio di leadership. Prima di lui nel 2018 era stato designato Heng Swee Keat, che avrebbe dovuto prendere il posto di Lee già qualche anno fa. Lo scoppio della pandemia da Covid ha portato il PAP a rimandare la transizione, la cui stabilità è stata poi messa in discussione dalle elezioni del 2020, nelle quali il partito ha conquistato “solo” 83 dei 93 seggi elettivi, uno dei peggiori risultati della sua storia. L’esito relativamente modesto del voto ha convinto Heng a farsi da parte.
La pandemia si è invece rivelata un’occasione, per Wong. Già ministro delle Finanze e vicepremier, Wong si è fatto notare per il buon lavoro portato avanti da copresidente della task force messa in piedi dal governo per gestire l’emergenza causata dal Covid. Nel 2022 i vertici del PAP lo hanno quindi nominato leader della 4G e di fatto successore di Lee, ma non all’unanimità (15 favorevoli su 19), denotando quantomeno una leggera frammentazione interna. A questo vanno sommati gli scandali che negli ultimi mesi hanno portato tecnicamente alle dimissioni, in pratica all’allontanamento, dello speaker del parlamento Tan Chuan-Jin (per una storia extraconiugale con una deputata) e del ministro dei Trasporti, Subramaniam Iswaran, accusato di corruzione (ne avevamo parlato qui).
Le due vicende hanno fatto scalpore, minando l’immagine di integrità e correttezza che il PAP si è costruito nel corso dei decenni e contribuendo al rafforzamento dell’opposizione, guidata dal Partito dei Lavoratori (WP). Gli esponenti della 4G del partito non godono quindi dello stesso livello di adulazione mostrata dai singaporiani verso i leader precedenti (non mancano già i nostalgici e le agiografie di Lee Hsien Loong).
Wong dovrà vedersela con questo e con una situazione interna che non è delle migliori. Nonostante il reddito pro-capite di Singapore resti tra i più alti al mondo (80 mila dollari nel 2022), le disuguaglianze di reddito tra la fascia alta e bassa della popolazione sono in aumento, così come il costo della vita. Questo sta portando i singaporiani a fare sempre meno figli o a lasciare la città-stato, mentre la percezione del paese come centro finanziario stabile sta venendo intaccata dall’incremento della corruzione e dal riciclaggio di denaro “sporco”. Le varie crisi internazionali stanno inoltre mettendo in discussione l’ordine internazionale che ha permesso a Singapore di prosperare negli ultimi decenni, senza contare che il sostegno di parte dell’opinione pubblica alla causa palestinese si sta trasformando in un’altra fonte di opposizione interna per il governo, che ha sempre mantenuto una posizione ambigua riguardo i suoi rapporti con Israele.
Per questo ora il PAP ha davanti due alternative. La prima è quella di anticipare le elezioni (si parla di settembre o della fine dell’anno) per cercare di portare a casa un buon risultato prima di un potenziale ulteriore peggioramento delle crisi in corso, che favorirebbe il WP. Il pericolo è che così facendo Wong avrà poco tempo per stabilizzare il suo governo e presentarsi come la figura adatta per il futuro di Singapore. La seconda è dare tempo al nuovo premier per ambientarsi e andare al voto non prima del maggio 2025.
In tutto questo si trovano già diverse biografie di Wong, da anni membro del parlamento, più volte ministro, educato negli Stati Uniti e così via. Ben poco si trova sulle sue idee politiche, scrive Kirsten Han, anche perché non si è mai distinto per dichiarazioni o prese di posizioni particolari. Molto probabilmente Wong la pensa come Lee e come il PAP su tutto, dalla libertà di espressione alla giustizia sociale, diritti civili, pena di morte. Con quello che si conosce oggi di lui, pensare che il suo governo possa garantire una maggiore apertura rispetto al passato è «wishful thinking», dice Han. Anche perché se avesse messo in discussione la visione del PAP su anche solo una di queste cose non sarebbe mai stato nominato come successore di Lee.
MYANMAR – LA BATTAGLIA DI MYAWADDY E AUNG SAN SUU SKYI
Si continua a combattere a Myawaddy, al confine tra Myanmar e Thailandia. Dopo tre giorni di battaglia, lo scorso 11 aprile la città è stata conquistata dal Karen National Liberation Army (KNLA, braccio armato della Karen National Union, KNU) e da alcune truppe delle People’s Defence Forces (PDF), “l’esercito” del governo democratico in esilio (NUG). Tutte le truppe dell’esercito birmano – salvo un battaglione rimasto nei pressi del fiume Moei che divide Myawaddy dalla città di Mae Sot, in Thailandia – si sono ritirate, e aveva fatto scalpore la notizia che la giunta avesse chiesto il permesso al governo thailandese di far atterrare in Thailandia almeno un aereo militare con a bordo alcuni documenti, e probabilmente diversi soldati. Per qualche giorno la città è rimasta in uno stato di calma apparente, con negozi aperti, persone in strada e pochi segni della battaglia, che è avvenuta quasi totalmente nelle aree di campagna periferiche.
Il 20 aprile sono però ricominciati gli scontri e i bombardamenti. Nei giorni precedenti la giunta aveva mandato circa 100 camion verso la città, di cui almeno 30 carichi di soldati, e molti osservatori già pronosticavano una controffensiva. Perdere definitivamente Myawaddy sarebbe disastroso, per il regime. Nonostante la guerra, negli ultimi 12 mesi (da aprile 2023 ad aprile 2024) lungo quel confine sono stati scambiati 1 miliardo di dollari di beni con la Thailandia. Ciò rende Myawaddy un hub di commercio transfrontaliero essenziale, soprattutto considerando che la giunta ha perso varie città di confine negli stati Shan, Rakhine e non solo. Secondo le prime stime l’esercito avrebbe sganciato sulla città più di 130 bombe, mentre 3.000 persone si sono rifugiate a Mae Sot attraversando il Moei (anche se già 1.200 hanno fatto ritorno in Myanmar). La Thailandia si è fin da subito preoccupata di rafforzare la presenza dell’esercito al confine, e il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara si è recato a Mae Sot il 23 aprile.
[AGGIORNAMENTO: Al contrario di quanto riportava una versione precedente dell’articolo, all’ultimo minuto il primo ministro thailandese, Srettha Thavisin, ha cancellato la sua visita a Mae Sot. Al suo posto il premier ha mandato il ministro degli Esteri].Mentre continuano gli scontri anche in molte altre zone del paese, l’altra grande notizia dal Myanmar riguarda il presunto trasferimento della leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari. Presunto perché lo ha annunciato il regime, senza prove e come già aveva fatto lo scorso anno, in quella che poi si era rivelata essere una bufala. Secondo la giunta, vari prigionieri “fragili” come Suu Kyi e l’ex presidente Win Myint sarebbero stati spostati dalla loro cella in una struttura non meglio specificata per via del grande caldo che in queste settimane sta asfissiando il Sud-Est asiatico.
Suu Kyi ha 78 anni e diversi problemi di salute: negli ultimi mesi erano emerse le condizioni disumane della cella in cui stava scontando la sua pena, un luogo sporco e senza aria condizionata. Il suo trasferimento (anche se utilizzato dal regime per secondi fini) sarebbe una buona notizia, ma fonti dell’Irrawaddy sostengono che si troverebbe ancora in carcere. Un suo eventuale spostamento ai domiciliari verrebbe probabilmente usato come leva dalla giunta per le trattative con i ribelli, ma «non dovremo cadere nella trappola di rendere Aung San Suu Kyi essenziale per la risoluzione politica» del conflitto, ha detto a Deutsche Welle l’analista David Scott Mathieson.
Altre notizie in breve. Da giorni non si hanno notizie del numero due della giunta, Soe Win: potrebbe essere rimasto ferito in un attacco dei ribelli, che hanno lanciato dei droni contro alcune strutture militari nello Stato Mon l’8 e il 9 aprile. La giunta acquista sempre più caccia e bombardieri dalla Russia. L’ASEAN ha chiesto (di nuovo) la cessazione immediata delle violenze nel paese.
THAILANDIA – MOVIMENTI NEL GOVERNO
Oltre a tutto il discorso relativo a Mae Sot, nelle ultime settimane il governo thailandese si è espresso con una certa frequenza sulle questioni birmane, dicendosi anche pronto ad accogliere 100 mila rifugiati dal Myanmar (senza però presentare un piano concreto di gestione dei profughi). Srettha ha dichiarato che «il regime militare sta perdendo forza», ed è importante che a dirlo sia il primo ministro di un paese vicino e comunque in buoni rapporti con l’esercito birmano.
Riguardo le questioni interne, nei prossimi giorni è previsto un rimpasto di governo (qui la lista dei ministri che dovrebbero essere sostituiti: Srettha potrebbe lasciare il suo ruolo da ministro delle Finanze). Lo stesso Srettha ha visitato l’ex premier Thaksin Shinawatra nella sua residenza di Ban Chan Song La, a Bangkok. Il primo ministro ha smentito, ma è probabile che i due abbiano parlato proprio dei cambiamenti da apportare al governo e alla coalizione, che potrebbe accogliere anche il Partito Democratico. Intanto la corte costituzionale ha concesso altri 15 giorni al Move Forward per presentare la sua difesa nel caso che è molto probabile porti allo scioglimento del partito (la nuova deadline è il 3 maggio), mentre si sta preparando il terreno per il ritorno nel paese dell’ex premier Yingluck Shinawatra, forse il prossimo anno.
Per capire un po’ di più sulla Thailandia e su cosa pensano i thailandesi abbiamo parlato con l’antropologo e professore associato alla Central University di Vienna, Claudio Sopranzetti. Riportiamo un estratto dell’intervista che si trova integrale qui.
«La mia impressione è che negli ultimi 7-8 anni sia emerso un pensiero conservatore e illiberale, che non esiste solamente in Thailandia, che rifiuta in molti modi la teoria della democratizzazione. Questo nasce da una serie di cose, e in particolare dalla delusione fortissima per quello che la democrazia rappresentativa ha portato in Thailandia negli ultimi 15-20 anni. Molti la ritengono una brutta copia della democrazia occidentale, che diventa per loro “dittatura della maggioranza”».
FILIPPINE – L’ACCORDO CON LA CINA NON ERA UN’INVENZIONE
Da qualche mese nelle Filippine girava voce che l’ex presidente Rodrigo Duterte avesse stipulato un accordo con la Repubblica popolare cinese, molto favorevole a Pechino, riguardo le controversie territoriali nel Mar cinese meridionale. Le voci venivano sempre dalla Cina, che nel corso degli ultimi mesi aveva più volte fatto riferimento a questo presunto patto, di cui nessuno nell’amministrazione Marcos sapeva nulla. Se ne era poi tornati a parlare a marzo, dopo che un ex portavoce del governo Duterte aveva per la prima volta confermato i rumors. L’ex presidente ha sempre smentito, o almeno lo ha fatto fino allo scorso 11 aprile, quando ha ammesso pubblicamente l’esistenza di un “patto tra gentiluomini” tra lui e il presidente cinese Xi Jinping. Xi gli ha chiesto di non inviare materiali da costruzione nell’atollo di Second Thomas (Ayungin, per le Filippine), ha detto Duterte, garantendogli in cambio che le navi cinesi non avrebbero ostacolato i rifornimenti di viveri verso la Sierra Madre, la nave da guerra incagliata volontariamente nell’atollo per legittimare le pretese di sovranità di Manila sul territorio e su cui sono regolarmente stanziati dei soldati filippini, a rotazione.
Pechino oggi si lamenta che Manila non stia rispettando questo “patto”, che però non è vincolante in nessun modo. Il presidente Ferdinand Marcos Jr. ha detto di non aver trovato alcun documento a riguardo, e con una mossa un po’ da showman ha dichiarato che «anche nel caso in cui questo patto segreto dovesse esistere, lo rescindo adesso!». A prescindere dall’accordo, comunque, le riparazioni della Sierra Madre sono andate avanti lo stesso anche durante il governo della precedente amministrazione, scrive l’Inquirer. Interessante che Duterte, molto attento a sottolineare che «l’accordo non comportava alcuna cessione di sovranità», ne abbia confermato l’esistenza proprio nel giorno in cui Marcos si incontrava a Washington con il presidente americano Joe Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida (qui per maggiori dettagli). Per stemperare le tensioni, si fa per dire, Duterte ha poi rilasciato un’intervista al tabloid cinese Global Times (qui il video).
Il 22 aprile sono intanto iniziate le “Balikatan”, ovvero le più grandi esercitazioni militari congiunte tra Filippine e Stati Uniti che si tengono ogni anno. Andranno avanti fino al 10 maggio e coinvolgeranno 16 mila soldati: per la prima volta partecipa anche la guardia costiera filippina. Non solo Stati Uniti, comunque, Manila sta diversificando i propri fornitori di armi e le proprie alleanze in materia di Difesa.
PAKISTAN – L’OPPOSIZIONE SI UNISCE
In Pakistan domenica 21 aprile si è votato per le elezioni suppletive riguardanti 5 seggi dell’Assemblea Nazionale e 16 di quelle provinciali, tra Punjab (12), Khyber Pakhtunkhwa (2) e Balochistan (2). Ci sono state polemiche perché il governo ha deciso di sospendere il servizio telefonico, in vista del voto. Il Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI), il partito dell’ex premier Imran Khan, ora in carcere, promette nuove mobilitazioni di massa il 26 aprile per protestare contro i presunti brogli anche di queste elezioni suppletive. Il PTI ha inoltre recentemente formato un’alleanza con altri 5 partiti per cercare di contrastare l’operato del governo: si chiama Movimento per la protezione della costituzione del Pakistan. Secondo diversi analisti contattati dal Nikkei la nuova coalizione potrebbe causare dei problemi all’esecutivo, soprattutto per quanto riguarda la capacità di mobilitare eventuali proteste, ma difficilmente porterà alla sua caduta. Per quello servirebbe il sostegno dell’esercito, che in questo momento vede nel PTI il suo principale avversario.
Intanto il ministro delle Finanze pakistano, Muhammad Aurangzeb, ha detto che Islamabad cercherà di firmare entro luglio un nuovo accordo per un prestito a lungo termine con il Fondo Monetario Internazionale (IMF).
Politica estera. In questi giorni si trova in Pakistan il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, nel paese dal 22 al 24 aprile. È la prima visita di un capo di stato straniero dalle elezioni dello scorso 8 febbraio, ed è significativo che sia Raisi per via dei bombardamenti reciproci tra Pakistan e Iran di gennaio. Come previsto, alla fine non hanno intaccato più di tanto le relazioni bilaterali. Nel frattempo, per riconquistare la fiducia di Pechino dopo gli attentati delle ultime settimane, dal 14 maggio il premier Shehbaz Sharif andrà in Cina.
VIETNAM – CORRUZIONE, CORRUZIONE, CORRUZIONE
Sono state settimane movimentate in Vietnam. L’11 aprile la magnate dell’immobiliare Truong My Lan è stata condannata a morte: è coinvolta in un enorme caso di frode finanziaria. Farà appello. Il suo caso è particolare non solo perché si tratta di una figura molto nota nel paese (qui per saperne di più su di lei), ma perché non è così consueto per i privati cittadini ricevere condanne così pesanti. La campagna anti-corruzione procede spedita. Dopo le dimissioni dello scorso mese da parte dell’ormai ex presidente Vo Van Thuong, che si ritiene essere coinvolto in un caso di corruzione (ne avevamo parlato qui), ora per Asia Sentinel a rischiare è anche il presidente dell’Assemblea Nazionale, Vuong Dinh Hue. Sarebbe una notizia clamorosa, visto che anche Hue, oltre a essere una delle figure più potenti del paese, è uno dei principali candidati alla segreteria generale del Partito Comunista del Vietnam, nel 2026.
Proprio Hue era stato tra l’altro in Cina per una visita di sei giorni dall’8 al 13 aprile. Dal 9 al 14, invece, il Vietnam ha ospitato il segretario di Stato del Vaticano, Paul Richard Gallagher. Hanoi e la Santa Sede hanno intenzione di migliorare le relazioni bilaterali (in Vietnam vivono 5,9 milioni di cattolici). Prima della caduta di Thuong, Papa Francesco era stato invitato a visitare il paese, ma per ora Hanoi non rientra tra le tappe asiatiche (Singapore, Indonesia e Papua Nuova Guinea) del viaggio del Papa in programma a settembre.
LINK DALL’ALTRA ASIA
Il 17 aprile si è votato nelle Isole Salomone. Il primo ministro uscente, Manasseh Sogavare, ha mantenuto il suo seggio e potrebbe essere confermato alla guida del paese (ne abbiamo scritto qui).
Il 21, invece, si sono tenute le elezioni parlamentari nelle Maldive. Ottime notizie per il presidente Mohamed Muizzu (e per la Cina): il suo partito, il People’s National Congress (PNC), ha stravinto.
Come previsto, la corte costituzionale indonesiana ha respinto la petizione delle opposizioni contro la vittoria del presidente eletto, Prabowo Subianto, alle elezioni del 14 febbraio. Si contestavano i favoritismi del presidente uscente, Joko Widodo. Sempre in Indonesia in questi giorni si è recato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che ha fatto tappa anche in Papua Nuova Guinea e Cambogia.
La Nuova Zelanda ha rafforzato i suoi legami con i paesi del Sud-Est asiatico. La regione ha inoltre un problema con i rifiuti, esportati illegalmente negli stati ASEAN dai paesi occidentali.
A cura di Francesco Mattogno