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L’Altra Asia – Un brutto segnale per il premier Anwar Ibrahim, in Malaysia

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

Una piccola sconfitta elettorale è sintomo di problemi più grandi per il primo ministro Anwar Ibrahim, in Malaysia. Le difficoltà economiche del Laos, non c’è pace per Imran Khan in Pakistan, l’ennesimo nuovo governo in Nepal, gli aggiornamenti dal Myanmar e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)

Gli argomenti della puntata di questa settimana, nel dettaglio:

  1. Malaysia – I problemi del governo di Anwar Ibrahim
  2. Laos – Rimosso il governatore della banca centrale, peggiorano il debito e l’inflazione
  3. Pakistan – La corte suprema dà ragione al PTI, Imran Khan assolto (e poi nuovamente arrestato), il governo minaccia di sciogliere il PTI, l’accordo preliminare con l’IMF
  4. Nepal – Accordo Oli-Deuba, si insedia il nuovo governo
  5. Myanmar – I combattimenti nel nord Shan e nella regione di Mandalay, i rapporti tra il regime e la Cina, le violenze nei confronti delle detenute, il nuovo team anti-disinformazione

Il 6 luglio si è votato nella circoscrizione di Sungai Bakap, nello stato malaysiano di Penang, per riassegnare un seggio dell’assemblea locale rimasto vacante a seguito della morte del deputato Nor Zamri Latiff, colpito a maggio da un’infiammazione allo stomaco. Nor era un membro della Perikatan Nasional (PN), l’alleanza di partiti che, a livello statale e federale, si oppone alla coalizione che fa capo al primo ministro Anwar Ibrahim, la Pakatan Harapan (PH). A sfidarsi per il seggio erano proprio un esponente della PN e uno della PH, rispettivamente Abidin Ismail e Joohari Ariffin.

È finita come ci si aspettava: Abidin ha stravinto con il 58,6% dei voti e il seggio è rimasto nelle mani della PN. Pur trattandosi di una piccola elezione suppletiva (erano chiamate a votare 39.000 persone), e dalle forti connotazioni locali, la sconfitta della PH è solo l’ultimo di una serie di segnali preoccupanti per il governo di Anwar, che già aveva sofferto alle elezioni statali del 2023. La circoscrizione di Sungai Bakap è a maggioranza malese, il gruppo etnico sul quale la PN sta costruendo il suo crescente consenso a livello nazionale, ma vede ben rappresentate al suo interno anche le minoranze indiana e cinese, elettorato che tendenzialmente pende più dalla parte della PH.

I risultati del voto hanno mostrato due cose. La prima è che l’elettorato malese – ritenuto più attento alle questioni identitarie, legate alla religione islamica – vota sempre meno per la PH, nonostante in questi 20 mesi al potere Anwar abbia fatto molto per attirarsi le simpatie dei musulmani. La seconda è che la PH non è nemmeno riuscita a smuovere la propria “base multietnica”: l’affluenza dei sino-malaysiani, ad esempio, è crollata del 13% rispetto alle elezioni locali del 2023.

Leggere un voto (qualunque voto) solo affidandosi alla composizione etnica degli aventi diritto non può essere sufficiente per analizzarne i risultati, e infatti non lo è. Nel caso della Malaysia rappresenta però una base di partenza per spiegare alcune dinamiche di politica interna.

Le elezioni generali del novembre 2022 avevano prodotto un parlamento sospeso, senza una chiara maggioranza, trovata solo a seguito dell’alleanza tra la PH e altre forze politiche, tra cui la United Malays National Organization (UMNO), il partito che ha dominato la politica malaysiana per 60 anni ma che è caduto in disgrazia a seguito dell’enorme scandalo per corruzione legato al fondo d’investimento sovrano 1MDB. Anwar è diventato primo ministro in quanto leader della coalizione che aveva ottenuto più seggi (la PH appunto, con 82), ma il partito ad aver eletto più deputati (43) era stato il Parti Islam Se-Malaysia (PAS), membro della PN, unica forza di opposizione con 74 seggi.

Il PAS è un partito dalla forte matrice islamica, e il suo ottimo risultato elettorale aveva generato non pochi timori riguardo la possibile ascesa dell’islamismo a livello federale. La proposta politica di Anwar era di ben altro tenore. Nel corso della sua lunga carriera l’attuale premier è sempre stato visto come un riformatore, di fatto progressista, capace di convogliare all’interno della PH sia i voti della maggioranza musulmana malese, sia quelli di tutte le altre minoranze etniche. Eppure, probabilmente per cercare di intercettare l’elettorato più radicale, durante il suo mandato Anwar ha spinto molto sull’identità islamica della Malaysia, come dimostrato anche dal forte attivismo su Gaza in politica estera.

Nelle ultime settimane si è anche parlato molto di un avvicinamento tra la PH e il PAS, con il possibile ingresso del partito nella coalizione di governo, ipotesi poi smentita da entrambe le parti. Ma quella di corteggiare la maggioranza malese non è una strategia che sembra aver dato i suoi frutti, anzi. Anwar potrebbe essersi alienato parte della base multietnica della PH senza aver portato dalla sua nemmeno un voto degli islamici radicali, il tutto mentre il suo governo perdeva popolarità per non aver dato seguito alle promesse fatte in campagna elettorale. A partire dalla lotta alla corruzione.

L’alleanza con la UMNO e le ambiguità nella gestione mediatica dei processi del caso 1MDB non hanno giovato alla reputazione del premier, che è stato anche accusato di aver limitato la libertà di stampa, di aver messo a tacere le voci dissidenti e di non aver implementato praticamente nessuna delle riforme su cui si era impegnato, soprattutto quella del settore dell’educazione. Ma a far discutere è anche la sua gestione dell’economia.

Se l’inflazione è un fenomeno che come tale non può essere attribuito al suo governo, molti imputano ad Anwar l’eccessivo aumento del costo della vita, soprattutto in merito alle tariffe per l’utilizzo dei servizi pubblici, come acqua ed energia elettrica. A giugno – e questo potrebbe aver pesato nel voto a Sungai Bakap – il governo ha inoltre tagliato i sussidi sull’acquisto dei carburanti, andando così a gravare ulteriormente sulle tasche dei malaysiani. Il risultato è che finora Anwar ha deluso molti dei suoi fedelissimi e allontanato l’elettorato più “mobile” ma moderato, che preferisce non andare a votare.

L’elezione suppletiva a Penang, dove comunque la PH mantiene la maggioranza nell’assemblea locale, potrà anche non avere conseguenze sulle capacità di governo della coalizione, ma è un pessimo segnale in vista del futuro. Secondo diversi analisti, il rischio è che negli anni a venire la Malaysia andrà incontro a una peggiore frammentazione e instabilità politica, cominciata nel 2018 con il crollo della UMNO.

LAOS – PIL E BENESSERE NON SEMPRE VANNO DI PARI PASSO

A inizio luglio l’Assemblea Nazionale – il parlamento laotiano dominato dal Partito Rivoluzionario del Popolo Lao (LPRP), il partito unico comunista che guida il paese dal 1975 – ha rimosso il governatore della banca centrale del paese, Bounleua Sinxayvolavong. Al suo posto è stato nominato Vathana Dalaloy, ex vicegovernatore. Bounleua era criticato da tempo per non essere stato in grado di contrastare l’inflazione (+26,2% a giugno) e la svalutazione del kip ma, secondo il Nikkei, non è chiaro se la sua sia stata un’epurazione o solo un demansionamento. In ogni caso l’economia laotiana è un po’ l’esempio di come la crescita del PIL (ci si aspetta un +4% nel 2024) e il benessere della popolazione non sempre vadano di pari passo. L’inflazione, che riguarda in particolare generi alimentari e medicinali, ha causato una generale diminuzione del reddito reale a disposizione delle famiglie, rendendo sempre più difficile accedere ai servizi pubblici di base.

Come mostra un report della Banca Mondiale, la difficile situazione economica ha causato anche la trasformazione del mercato del lavoro. Sempre più laotiani sono passati dal settore dei servizi a quello agricolo o della manifattura, mentre tante persone hanno anche intrapreso la strada del lavoro autonomo. Altri, specialmente i giovani, se ne vanno. Il governo ha creato una commissione speciale per contrastare l’inflazione e si è impegnato a investire in piani di sviluppo per il contrasto alla malnutrizione, potenziando la produzione agricola e adottando nuove misure per favorire occupazione e turismo. Ma, complice la corruzione e il malgoverno del paese, potrebbe non essere sufficiente.

Il Laos continua a fare affidamento sugli investimenti esteri, senza che questi siano mai riusciti a creare abbastanza posti di lavoro. Il debito (oggi al 108% del PIL) continua ad aumentare, mentre diminuiscono le riserve di valuta estera, impoverite dalla stessa svalutazione del kip. Ora Vientiane sta lavorando a un’ulteriore dilazione del suo debito estero, soprattutto quello nei confronti della Cina, suo principale creditore, ma il rinvio dei pagamenti va avanti da almeno quattro anni e non potrà essere sostenibile per sempre. «Il Laos non vuole andare in default sul debito, ma non ha nemmeno intenzione di chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale per timore delle eventuali conseguenze politiche», ha detto un banchiere anonimo al Nikkei. Gli ultimi sviluppi preoccupano su quella che sarà la stabilità del paese nel prossimo futuro.

Esteri. L’11 luglio il nuovo presidente vietnamita To Lam si è recato in visita a Vientiane, mentre il primo ministro laotiano Sonexay Siphandone ha visitato Singapore il 9 del mese. Il 18 luglio finiscono le due settimane di esercitazioni militari tra le forze armate laotiane e cinesi. Dal 21 al 27 luglio nella capitale si terrà il meeting dei ministeri degli Esteri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), di cui il Laos è presidente annuale.

PAKISTAN – NON C’È PACE PER IMRAN KHAN

Gli ultimi giorni sono stati particolarmente caotici per l’ex primo ministro pakistano Imran Khan e per il suo partito, il Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI). Bisogna andare con ordine.

• Il 12 luglio, a cinque mesi di distanza dal voto di febbraio, la corte suprema ha ribaltato una precedente sentenza e decretato che il PTI ha diritto alla sua quota di seggi in parlamento riservati alle donne e alle minoranze etniche. Quei seggi (sono 70 su 336 nell’Assemblea Nazionale, ma una loro percentuale è presente anche in ogni assemblea provinciale) vengono assegnati ai partiti che hanno partecipato alle elezioni in misura proporzionale rispetto ai voti ottenuti. Il PTI, a seguito di un cavillo pretestuoso, non ha però potuto partecipare formalmente come partito alle elezioni di febbraio (tutti i suoi candidati sono stati costretti a correre come indipendenti: ne avevamo parlato qui), e questo gli ha precluso la possibilità di avere accesso alla sua quota di deputati.

La sentenza della corte suprema è politicamente rilevante, perché comporta la redistribuzione dei seggi anche al PTI, che potrà disporre di una ventina di deputati in più, con la conseguente diminuzione dei parlamentari connessi alla coalizione di governo (che ha perso la super-maggioranza dei due terzi necessaria a modificare la costituzione). L’esecutivo ha fatto ricorso contro la decisione del tribunale.

• Il giorno dopo, il 13 luglio, un tribunale di Islamabad ha assolto Khan e sua moglie Bushra Bibi dal caso “Iddat”, per il quale i due erano stati condannati in primo grado a 7 anni con l’accusa di aver contratto un matrimonio illegale. Si trattava dell’ultimo dei quattro casi in cui il leader del PTI era stato condannato, tutti gli altri erano stati risolti: due con la sospensione della pena e un altro con l’assoluzione. Khan avrebbe dovuto quindi essere liberato dal carcere, dove è rinchiuso da agosto del 2023, ma poche ore dopo la sentenza sia l’ex campione di cricket che sua moglie sono stati accusati di altri reati, sempre connessi a vecchi casi di corruzione e terrorismo (per i fatti del 9 maggio 2023). I due faranno ricorso all’Alta corte di Islamabad, ma intanto non potranno uscire di prigione.

• Il 15 luglio il ministro dell’Informazione, Attaullah Tarar, ha annunciato che il governo presenterà istanza alla corte suprema per chiedere lo scioglimento del PTI. Il partito è accusato di aver ricevuto fondi esteri illegali, a cui si sommano le accuse di corruzione e terrorismo a Khan, per il quale si chiederà un’incriminazione per alto tradimento.

Secondo vari osservatori, è difficile che il PTI verrà bandito. Resta però un fatto evidente: come è palese da tempo, il governo della Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N) – probabilmente con il supporto dell’esercito – ha intenzione di fare di tutto per tenere Khan e il PTI lontani dalla vita politica del paese. Dopo alcuni passi in avanti fatti negli ultimi mesi, che potevano preludere a una prima forma di “normalizzazione”, la politica pakistana è nuovamente tornata a essere un campo di battaglia.

Intanto, il governo ha raggiunto un accordo preliminare con il Fondo Monetario Internazionale (IMF) per un nuovo prestito da 7 miliardi di dollari.

NEPAL – UN ALTRO GOVERNO, L’ENNESIMO

In Nepal si è appena insediato il quattordicesimo governo in sedici anni, il quarto degli ultimi venti mesi. Solo a marzo l’allora premier Pushpa Kamal Dahal, leader del Partito Comunista di Centro Maoista (CPN-MC), aveva rotto la coalizione con il Congresso Nepalese (NC) e si era era alleato nuovamente con il Partito Comunista Marxista-Leninista Unificato (CPN-UML) di Khadga Prasad Sharma Oli, insieme ad altri partiti minori. Però Oli e Dahal non sono mai andati molto d’accordo, e nelle ultime settimane il capo del CPN-UML aveva iniziato a trattare con il NC di Sher Bahadur Deuba per estromettere Dahal dal potere. È andata così. Dahal ha provato a resistere, rifiutandosi di dimettersi mentre il suo esecutivo cadeva a pezzi e puntando tutto sul voto di fiducia in parlamento dello scorso 12 luglio, ma alla fine ha ricevuto il sostegno solo di 63 dei 275 membri della camera. Nonostante le proteste di Dahal, che ha parlato di un accordo «orchestrato da qualcuno» che potrebbe «portare all’autoritarismo», il 15 luglio Oli ha giurato come nuovo primo ministro.

La reputazione del leader del CPN-UML non è delle migliori. Durante il suo ultimo mandato Oli ha provato a sciogliere per due volte le camere piuttosto che cedere il potere al suo partner di coalizione, con cui avrebbe dovuto condividere il ruolo da premier, prima di essere bloccato dalla corte suprema. Ora sembra che anche con Deuba ci sia un accordo simile per dividersi la poltrona da primo ministro. Ma Oli, oltre che come “voltafaccia”, è anche visto come una persona testarda, con cui è difficile lavorare, un politico – come tanti – che ama circondarsi di “yes man”. Di lui non si fidano troppo né l’India, né la Cina, i due grandi vicini di Kathmandu.

Di certo c’è che la politica nepalese si conferma caotica e instabile, dominata dai personalismi, cinica e priva di assetti ideologici, a dispetto dei tanti partiti che richiamano a comunismo, maoismo e socialismo. È difficile pensare che sarà questo ennesimo rimpasto tra gli stessi protagonisti di sempre a stabilizzare le cose. Qui un articolo del direttore editoriale di China Files, Lorenzo Lamperti, che racconta più nel dettaglio cosa è successo in questi giorni.

MYANMAR – OPERAZIONE 1027, PARTE 2

Il 3 luglio è iniziata una grande offensiva a Lashio, la città più importante del nord dello Stato Shan, Lì risiede il comando nordorientale dell’esercito birmano, cioè la maggiore fortificazione militare nella regione, e a gennaio c’era chi paventava la rimozione del leader della giunta, Min Aung Hlaing, nel caso la città fosse caduta. Poi è arrivato il cessate il fuoco e lo stallo di oltre cinque mesi, prima della ripresa dei combattimenti a fine giugno. Nel corso di poche settimane la seconda fase dell’Operazione 1027 ha portato i ribelli alla conquista di oltre 80 basi e 10 quartier generali dell’esercito, oltre che delle città di Kyaukme, Nawnghkio e Mogoke. L’avanzata degli eserciti etnici minaccia di estendersi più in profondità nella regione di Mandalay, che il regime sta fortificando, mentre aumentano i bombardamenti di rappresaglia della giunta sui civili.

Il 15 luglio i ribelli hanno detto che avrebbero sospeso le operazioni nelle zone vicine al confine con la Cina durante lo svolgimento del Terzo Plenum del Partito Comunista Cinese, dal 15 al 18 luglio, ma sembra che l’esercito birmano abbia invece continuato ad attaccare le milizie etniche. Intanto decine di migliaia di persone sono fuggite da Lashio, diventata una città fantasma. Gli sfollati si stanno riversando in varie parti del paese, comprese le zone controllate dallo United Wa State Army (UWSA), l’esercito etnico più potente del paese che non è però una parte attiva del conflitto, avendo firmato un cessate il fuoco con i militari nel 1989 in cambio di maggiore autonomia regionale. Negli ultimi giorni l’UWSA ha dispiegato circa 2 mila truppe a Tangyan, probabilmente come forma di protezione per evitare l’espansione del conflitto entro i suoi confini. Si sono registrati anche degli screzi (poi risolti) tra altre milizie dello Stato Shan, forse la regione etnicamente più complessa di tutto il paese (qui un articolo di Bertil Lintner per approfondire).

Altre notizie in breve. Il comandante della marina Zwe Win Myint si è dimesso dopo soli sei mesi dall’insediamento, gli erano state criticate le gravi sconfitte soprattutto nel Rakhine (dove non si ferma l’avanzata dell’Arakan Army). Una delegazione guidata dal numero due della giunta, Soe Win, è stata in Cina l’8 e 9 luglio: è la prima visita di un alto funzionario del regime nella Repubblica Popolare dal golpe del 2021. Intanto la Cina continua a vendere armi e carburante per i caccia al Myanmar (qui una “Big Story” del Nikkei sull’argomento). Pechino starebbe anche facendo ostruzione ai ribelli, chiudendo le rotte commerciali con le città liberate al confine e bloccando l’accesso a energia elettrica e internet. Ci sono varie testimonianze delle violenze subite dalle detenute donne nelle carceri birmane: si parla di stupri, molestie e aggressioni. Il regime ha lanciato un nuovo “team anti-disinformazione” per rafforzare la censura di internet e… disinformare. In poco più di un mese la Thailandia ha arrestato circa 81.000 lavoratori birmani irregolari presenti nel paese.

LINK DALL’ALTRA ASIA

Il presidente indonesiano Joko Widodo aveva detto che per luglio si sarebbe trasferito a Nusantara, la nuova capitale in costruzione nel Borneo, ma ha dovuto cambiare idea (e non è un buon segno).

In Vietnam i pagamenti digitali oltre i 10 milioni di dong (360 euro) potranno essere fatti solo fornendo i propri dati biometrici, tramite il riconoscimento facciale. Intanto preoccupa il futuro demografico del paese.

In Cambogia sono stati condannati fino a 6 anni diversi attivisti per l’ambiente, con l’accusa di aver creato «disordini».

In Thailandia c’è il nuovo senato, si protesta per la probabile nuova criminalizzazione della cannabis (ne avevamo parlato qui) ed è stato esteso a 60 giorni il periodo di tempo in cui i cittadini di 93 stati – tra cui l’Italia – potranno stare nel paese senza visto. Il 7 agosto la corte costituzionale annuncerà il verdetto nel caso che potrebbe portare allo scioglimento del Move Forward. I cadaveri di sei persone, di nazionalità americana e vietnamita, sono stati trovati in una stanza dell’hotel Grand Hyatt Erawan di Bangkok il 16 luglio. Forse sono state avvelenate.

Le Filippine hanno firmato un accordo di reciproco accesso (RAA) con il Giappone che, una volta ratificato, permetterà alle truppe dei rispettivi eserciti di muoversi con più facilità nei territori dei due paesi. Perché è importante, qui. Intanto, il 16 luglio, il comandante dell’esercito americano Charles Brown Jr ha visitato le Filippine per incontrare la controparte Romeo Brawner Jr. Il 30 luglio si terrà il dialogo 2+2 tra i segretari alla Difesa e agli Esteri di Washington e Manila.

La Shanghai Cooperation Organisation (SCO) deve darsi qualcosa di concreto da fare. Poi il resoconto della visita del presidente cinese Xi Jinping in Tagikistan, qui.

Chi è il nuovo presidente iraniano, il “riformatore” Masoud Pezeshkian.

Asia meridionale. Le Maldive devono darsi all’austerità. Cina e Bangladesh hanno firmato un partenariato strategico globale, mentre ci sono stati almeno 6 morti a seguito delle proteste contro il governo tra il 15 e il 16 luglio. Come sta il Bhutan? Non troppo bene, scrive il Kuensel.

Dal 16 al 18 luglio, a Tokyo, è in programma il 10° Incontro tra i leader delle Isole del Pacifico (PALM10). Si tratta di un forum a cadenza triennale creato dal Giappone per rafforzare i legami con i paesi della regione: per capirne di più, un articolo del Nikkei.

A cura di Francesco Mattogno