Indonesia proteste

L’Altra Asia – Le proteste in Indonesia e le altre storie dell’estate asiatica

In Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

Le grandi proteste del 22 agosto, in Indonesia, hanno scalfito forse per la prima volta a livello nazionale l’immagine del presidente uscente Joko Widodo. E sono state un buon segnale per la democrazia indonesiana. Gli aggiornamenti dal Myanmar, dove la guerra non si ferma mai, il caos politico in Thailandia e le altre storie estive da Filippine, Vietnam, Cambogia, Malaysia e Singapore, insieme ai consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)

Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:

  • Indonesia – Le grandi proteste del 22 agosto e le (altre) manovre di Jokowi
  • Myanmar – Min Aung Hlaing non se la passa bene, elezioni annunciate per novembre 2025, la sempre maggiore influenza della Cina sul paese, il massacro dei Rohingya nel Rakhine, la complicità di Italia e Francia e tutti gli altri aggiornamenti
  • Thailandia – Il Move Forward si trasforma nel People’s Party, la rimozione del premier Srettha Thavisin, la nuova prima ministra Paetongtarn Shinawatra
  • Filippine – Nuovi fronti nel mar Cinese meridionale, arrestati Alice Guo e Apollo Quiboloy
  • Vietnam – To Lam in Cina, il nuovo (nuovo) presidente verrà nominato a ottobre
  • Cambogia – Le proteste contro il trattato di sviluppo con Vietnam e Laos, gli arresti nell’opposizione, le polemiche attorno al ruolo della Cina nella base di Ream
  • Malaysia – La politica estera di Anwar Ibrahim (tra Russia, India e Palestina)
  • Singapore – Il (non) radicale discorso alla nazione del premier Lawrence Wong

Tra poco meno di un mese, il prossimo 20 ottobre, Joko “Jokowi” Widodo non sarà più il presidente dell’Indonesia. Nonostante il grande consenso popolare che ha contraddistinto entrambi i suoi mandati (il tasso di approvazione nei confronti del suo governo si è attestato con continuità attorno al 70-80% durante l’arco di tutti i suoi dieci anni al potere) è difficile immaginare oggi come gli indonesiani ricorderanno la sua presidenza, tra qualche anno.

A partire dal 2019, a seguito della sua seconda vittoria alle elezioni presidenziali, Jokowi ha iniziato a erodere un tassello alla volta vari pezzi della democrazia indonesiana con una serie di manovre accentratrici e dinastiche (di cui abbiamo parlato qui e qui), volte a garantirgli una certa influenza politica anche una volta terminato il suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Tra queste rientra in particolare il sostegno alla candidatura del controverso ex generale e ministro della Difesa Prabowo Subianto, che lo sostituirà come capo di stato a partire dal 20 ottobre e che avrà come vice il primogenito di Jokowi, Gibran Rakabuming Raka. Una decisione presa contro la volontà del suo ormai ex partito, il Partito Indonesiano Democratico di Lotta (PDI-P), che lo ha espulso.

Nonostante le opposizioni intrapartitiche, per mesi Jokowi ha potuto agire quasi indisturbato, senza provocare grandi malumori all’interno della società civile indonesiana e attirandosi le critiche soprattutto del mondo accademico. Ma qualche settimana fa qualcosa è cambiato. Il 20 agosto due sentenze della corte costituzionale indonesiana hanno riequilibrato alcune norme relative alle elezioni provinciali, in programma a novembre, che se lasciate allo stato in cui erano avrebbero favorito i partiti della maggioranza che dal 20 ottobre farà capo a Prabowo.

Con la prima sentenza il tribunale ha abbassato la soglia che imponeva solo ai partiti o alle coalizioni con almeno il 20% dei seggi nel parlamento nazionale, o che avessero raccolto almeno il 25% dei voti alle ultime elezioni, di poter nominare un proprio candidato a governatore provinciale. Si trattava di una soglia altissima, che di fatto avrebbe reso inutile il voto in molte province, dove si sarebbe potuto presentare solamente il candidato della maggioranza nazionale.

Questo perché, durante questi mesi di trattative per la formazione del prossimo governo, Prabowo è riuscito a convincere 7 degli 8 partiti facenti parte della camera dei rappresentanti a entrare nell’esecutivo, lasciando all’opposizione solo il PDI-P, che alle legislative di febbraio ha raccolto il 17% dei voti (una tattica di “annullamento” dell’opposizione già rodata da Jokowi nel suo secondo mandato). Le nuove soglie sono state quindi fissate al 7,5% e al 6% per le province con più di 12 milioni di abitanti, riaprendo la competizione elettorale.

Con la seconda decisione, invece, la corte costituzionale ha annullato una precedente sentenza della corte suprema: a maggio il tribunale aveva decretato che l’età minima per candidarsi a governatore provinciale (o a vice) doveva essere di 30 anni non al momento della candidatura, come era sempre stato, ma al momento dell’insediamento. La sentenza avrebbe permesso a un altro figlio di Jokowi, Kaesang Pangarep, di candidarsi a Giacarta (probabilmente come vicegovernatore), visto che al momento dell’insediamento avrebbe compiuto i 30 anni richiesti dalla legge.

Subito dopo l’annuncio delle due sentenze, la camera (controllata dalla maggioranza di Jokowi e Prabowo) ha fissato un voto parlamentare per revisionare la legge relativa alle elezioni provinciali. Lo scopo della sessione era ripristinare le soglie e i limiti di età previsti in precedenza, invalidando così le decisioni della corte costituzionale. La bozza di legge, trapelata online, ha suscitato grande indignazione e convinto vari gruppi della società civile a organizzare enormi proteste in diverse città indonesiane, in programma il 22 agosto.

Questa immagine, che riporta la scritta “Avviso d’emergenza”, è diventata virale in Indonesia dopo la diffusione della bozza di legge, trasformandosi nel simbolo del movimento di protesta.

In quelle più partecipate, a Giacarta, i manifestanti hanno circondato il parlamento, prima di essere respinti dalle forze di polizia con lacrimogeni e cannoni ad acqua. Ci sono stati diversi arresti e qualche momento di tensione, ma alla fine i manifestanti hanno vinto.

Le proteste a Giacarta.

Il parlamento ha rimandato la sessione con cui avrebbe dovuto ratificare la legge (ufficialmente per non aver raggiunto il quorum) e invitato la commissione elettorale ad accogliere le due sentenze della corte costituzionale, certificando così che non ci saranno ulteriori cambiamenti prima delle prossime elezioni provinciali. Si è trattato del primo vero passo falso di Jokowi, che nel corso dell’ultimo anno aveva agito più volte per modificare leggi e regolamenti a suo piacimento. Suo figlio Kaesang – che nel frattempo è volato negli Stati Uniti in jet privato, facendo ulteriore scandalo – sarà costretto a saltare questa tornata elettorale, mentre i suoi alleati dovranno sudarsi la vittoria alle urne.

Da tutto questo Prabowo ne è uscito praticamente indenne. Le proteste hanno riguardato Jokowi, non l’ex generale, che secondo diversi osservatori sta aspettando il momento giusto per svincolarsi dal matrimonio di convenienza con il suo predecessore. Intanto l’attuale presidente si è mosso su altri fronti. Prima ha rimosso due ministri del PDI-P dal suo governo, rimpiazzandoli con dei suoi fedelissimi, poi ha visto uno dei suoi alleati (Bahlil Lahadalia) diventare leader del Golkar, il secondo partito più grande alla camera. Dopo la nomina Bahlil ha detto ai membri del partito di rispettare la linea del “Re di Giava”, alludendo a Jokowi, salvo poi ritrattare a seguito di una nuova ondata di critiche.

  • Politica estera. Dal 1° al 3 settembre si è tenuto a Bali il Forum Indonesia-Africa (IAF), durante il quale Jokowi ha ribadito l’impegno di Giacarta nel «difendere gli interessi del Global South» (qui per maggiori dettagli). Ad agosto Prabowo è volato in Australia per firmare un accordo di cooperazione nel settore della difesa.
  • China Files ha dedicato all’Indonesia l’ebook di febbraio (qui il link). Ad agosto è anche uscito un nuovo numero della rivista Rise, sempre con un focus sul paese.

MYANMAR – LE PAURE DI MIN AUNG HLAING E IL SUPPORTO DELLA CINA

Come da molti mesi a questa parte, le ultime settimane non sono state semplici per il generale, presidente del Myanmar e leader della giunta militare birmana Min Aung Hlaing. Partendo dalla fine, il 5 settembre l’esercito etnico della Karenni Nationalities Defense Force (KNDF) ha bombardato alcuni dei luoghi in cui avrebbe dovuto trovarsi il generale durante la sua visita a Loikaw, la capitale dello Stato Kayah (Karenni). Finalizzato a risollevare il morale delle truppe e a ribadire il controllo dell’esercito sulla città, il viaggio di Min Aung Hlaing è finito in fretta e furia, con il leader della giunta costretto a fare immediatamente ritorno a Naypyidaw.

Ad agosto, invece, per qualche ora era girata voce che il generale fosse stato destituito e arrestato in un colpo di stato interno all’esercito. Alla fine i rumors non si sono rivelati fondati, anche se qualche giorno dopo Min Aung Hlaing ha promosso tre suoi alleati al ruolo di generali, confermando sia di avere ancora in mano il controllo dell’esercito, sia che le sue paranoie stanno crescendo giorno dopo giorno (e sconfitta dopo sconfitta).

Ad aiutare il capo della giunta birmana ci sta comunque pensando la Cina. Duramente (seppur velatamente) criticata da Min Aung Hlaing, che ha imputato la caduta di Lashio a «certi paesi stranieri», alludendo molto probabilmente ai rapporti di Pechino con i ribelli dello Stato Shan, da qualche settimana a questa parte la Repubblica Popolare sta cercando di correggere la sua posizione di ambiguità e mostrarsi – almeno ufficialmente – vicina al regime. A metà agosto il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha visitato il Myanmar e incontrato tutte le principali figure legate all’esercito (compreso Min Aung Hlaing e i due ex dittatori Than Shwe e Thein Sein), ribadendo il supporto di Pechino al piano per le elezioni farsa previste dal regime a novembre 2025. Elezioni che non saranno né “nazionali” (non si voterà nei territori liberati dai ribelli), né giornaliere: probabilmente, se si andrà alle urne, il voto verrà spalmato su più giorni o settimane.

La Cina ha anche nominato la sua nuova ambasciatrice nel paese, Ma Jia, che ha parlato amichevolmente con i vertici della giunta (mentre l’inviato speciale per il Myanmar, Deng Xijiun, ha recentemente incontrato sia Min Aung Hlaing che i leader del Kachin Independence Army). Intanto, dal 27 al 29 agosto, l’Esercito Popolare di Liberazione cinese (PLA) ha tenuto delle importanti esercitazioni militari nello Yunnan, al confine col Myanmar, dove Pechino sta alzando i livelli d’allerta. Proprio per garantirsi stabilità alla frontiera, il governo cinese avrebbe “invitato” l’esercito etnico del Ta’ang National Liberation Army (TNLA) a interrompere le offensive nello Stato Shan e nella regione di Mandalay. La Cina ha inoltre chiuso alcuni varchi per il commercio transfrontaliero nelle zone controllate dai ribelli nel tentativo di limitare il loro accesso a risorse importanti per il prosieguo della guerra, e di spingerli dunque a dei colloqui di pace con il regime. Ma intanto i ribelli avanzano verso Mandalay, la seconda città birmana per estensione, e la guerra continua in tutto il paese.

Continua a preoccupare la situazione umanitaria nello Stato Rakhine. L’Arakan Army (AA), che ha conquistato anche una base navale dell’esercito a Thandwe, è stato accusato di aver massacrato deliberatamente oltre 200 Rohingya (compresi diversi bambini) stanziati in un campo profughi, lo scorso 5 agosto. L’AA nega e accusa i militari: qui c’è un’intervista all’Irrawaddy al comandante dell’AA Twan Mrat Naing. Le tensioni con i Rohingya sono note da tempo, e l’AA sostiene che i gruppi armati della minoranza etnica stiano collaborando con il regime (ne parla anche qui Reuters).

Più in breve. La giunta ha imposto una sorta di leva agli uomini dai 35 ai 65 anni in tutto il paese, obbligandoli a entrare in delle “milizie di sicurezza” per controllare villaggi e città. A ottobre inizierà il censimento per le elezioni del 2025 (come le elezioni, per cause di forza maggiore non sarà un censimento “nazionale”). Il regime ha inserito la Three Brotherhood Alliance (composta da AA, TNLA e Myanmar National Democratic Alliance Army, MNDAA) all’interno dei “gruppi terroristici”: questo significa che chiunque collaborerà con i tre eserciti ribelli potrà essere accusato di tradimento, e che forse la giunta sta preparando una controffensiva nel nord-est del paese. Anche l’Italia partecipa ai massacri del regime: gli aerei della Avions de Transport Regional (ATR), joint venture tra la francese Airbus e l’italiana Leonardo, sono regolarmente usati dall’esercito per il trasporto di truppe e rifornimenti, ha rivelato Justice for Myanmar.

THAILANDIA – FA TUTTO LA CORTE COSTITUZIONALE

In Thailandia è difficile annoiarsi, anche ad agosto. Dopo aver sciolto il Move Forward (ne abbiamo parlato qui), il 14 agosto la corte costituzionale thailandese ha rimosso un po’ a sorpresa il premier Srettha Thavisin dal suo ruolo e ora a Bangkok c’è una nuova prima ministra, Paetongtarn Shinawatra. Ma serve andare con ordine.

Capitolo Move Forward. A seguito dello scioglimento del 7 agosto, e della squalifica dalla politica dei suoi vertici, il partito degli arancioni si è ricostituito in una nuova formazione, il People’s Party, che si è insediato nelle strutture burocratiche di un partito già esistente, il Thinkakhao Chaovilai. Hanno subito fatto discutere il nome e il simbolo scelto dal gruppo progressista, che ha mantenuto sia il programma, sia tutti i 143 deputati eletti con il Move Forward. Il nome “Partito del popolo” è la traduzione di “Khana Ratsadon”, il gruppo che nel 1932 ha dato il via alla Rivoluzione siamese che ha posto fine alla monarchia assoluta (da allora la Thailandia, all’epoca Siam, è una monarchia costituzionale). Il nuovo logo, che richiama quello del Move Forward, è invece una piramide rovesciata, simbolo di come il popolo sia sopra a chi lo governa.

Insomma, nonostante lo scioglimento sia arrivato proprio a seguito della campagna del Move Forward volta a depotenziare la legge sulla lesa maestà, la sfida alla monarchia rimane un perno centrale anche del People’s Party, come ha confermato anche il nuovo leader del partito, Natthaphong Ruengpanyawut. «Emenderemo la legge [sulla lesa maestà], ma per farlo cambieremo approccio», ha detto Natthaphong a Francesca Regalado del Nikkei.

Capitolo premier. La corte costituzionale ha deciso di rimuovere Srettha (con maggioranza di 5 a 4) perché colpevole di aver violato il codice etico nominando come ministro un ex avvocato condannato per corruzione, Prachit Chuenban. La defenestrazione di Srettha, tutt’altro che scontata alla vigilia della sentenza, ha aperto una fase di instabilità che si è risolta in pochi giorni. Il 16 agosto il parlamento ha votato per eleggere Paetongtarn, leader del Pheu Thai e figlia dell’ex premier Thaksin Shinawatra, a prima ministra. Di fatto il nuovo governo – già nominato e approvato dal re Maha Vajiralongkorn – è per gran parte lo stesso guidato da Srettha, con però una grande novità. Il Palang Pracharath Party (PPRP), ovvero il principale partito connesso all’esercito, è stato fatto fuori dalla coalizione di governo e resterà all’opposizione per la prima volta dal colpo di stato del 2014.

Il PPRP – che si è sfaldato in due, con la fazione legata al generale golpista Prawit Wongsuwan rimasta isolata – è stato accusato di aver orchestrato la petizione sulla base della quale la corte ha rimosso Srettha. Oltre agli esuli del PPRP, nella nuova coalizione è entrato il Partito Democratico, cioè il più grande nemico degli Shinawatra per oltre vent’anni. Si tratta dell’ennesimo compromesso per unirsi in una causa comune contro una minaccia più grande: i progressisti del People’s Party.

Paetongtarn eredita un paese la cui crescita economica è stagnante da anni. Srettha, nonostante grandi sforzi per attrarre investimenti esteri, non è riuscito a mantenere le sue promesse sull’economia: ora sta alla nuova premier (e a suo padre Thaksin, che adesso ha davvero un filo diretto con il potere) cercare di cambiare le cose per tirare su il tasso di approvazione del Pheu Thai, ai minimi storici. Come prima cosa, comunque, dovrà affrontare l’emergenza causata dalle forti inondazioni che da metà agosto stanno colpendo la Thailandia (e più in generale tutta la regione).

LE ALTRE STORIE ESTIVE

FILIPPINE – Quello appena trascorso è stato un agosto abbastanza movimentato anche nel mar Cinese meridionale. Lo scorso luglio Cina e Filippine hanno firmato un accordo per permettere alle navi di Manila di compiere missioni di rifornimento verso l’atollo di Second Thomas senza le interferenze cinesi, ma questo ha aperto ad altri “fronti” di scontro tra le navi delle due guardie costiere nell’area contesa. Dall’inizio di agosto ci sono stati almeno 7 incidenti, di cui tre nei pressi dell’atollo di Sabina, parte dell’arcipelago delle Spratly (rivendicate da Cina, Filippine, Taiwan e Vietnam) e molto più vicino alle Filippine di Second Thomas. In due casi ci sono stati speronamenti tra le imbarcazioni dei due paesi, mentre in un’occasione due aerei cinesi hanno sparato dei razzi di segnalazione sulla rotta di un aereo da pattugliamento filippino. Vista la situazione, gli Stati Uniti potrebbero iniziare a scortare le navi filippine, un’ipotesi che potrebbe portare facilmente all’escalation: Manila e Washington sono legate da un accordo di mutua difesa (firmato nel 1951), che ora qualcuno nelle Filippine vorrebbe aggiornare proprio in relazione alle tensioni nel mar Cinese meridionale.

Politica interna. È stata arrestata in Indonesia la fuggitiva Alice Guo, politica sino-filippina accusata di avere legami con le organizzazioni criminali cinesi e di aver mentito sulla sua nazionalità (per l’accusa Guo sarebbe cittadina cinese, non filippina).  Qui per la sua storia. Domenica 8 settembre è stato arrestato anche un altro fuggitivo, il predicatore cristiano Apollo Quiboloy, accusato di abusi sessuali e traffico di esseri umani (Quiboloy, amico della famiglia Duterte e ricercato anche dall’FBI, era latitante da mesi: qui e qui per maggiori dettagli). Qui invece per gli aggiornamenti su come se la sta cavando la vicepresidente Sara Duterte, ormai antagonista del presidente Ferdinand Marcos Jr., e qui per conoscere le possibilità dell’opposizione alle elezioni di metà mandato del 2025.

VIETNAM – Il presidente del paese e segretario generale del Partito Comunista del Vietnam (CPV), To Lam, è stato in Cina dal 18 al 20 agosto. Lì ha omaggiato Ho Chi Minh e incontrato il suo omologo, Xi Jinping, e il primo ministro Li Qiang. Qui per leggere la dichiarazione congiunta tra le parti, che hanno firmato 14 memorandum d’intesa su vari temi, dallo sviluppo infrastrutturale alla cooperazione di difesa. Lam intanto ha già iniziato a circondarsi di fedelissimi: ora 6 dei 15 membri del politburo del CPV provengono dall’apparato di sicurezza, ed è probabile che da qui al 2026 il segretario continuerà a usare la campagna anti-corruzione per liberarsi delle fazioni interne al partito a lui ostili. Comunque, non manterrà il doppio ruolo ancora per molto. A ottobre è in programma una sessione dell’Assemblea Nazionale per eleggere il nuovo presidente del Vietnam. Lam resterà solo segretario del CPV, cioè, in ogni caso, la figura più importante del paese.

CAMBOGIA – Sono state represse con un centinaio di arresti le manifestazioni che, attorno alla fine di agosto, chiedevano di rivedere l’accordo per lo sviluppo congiunto delle aree di confine tra Cambogia, Laos e Vietnam (CLV). Il trattato è entrato in vigore nel 2004, ma è tornato recentemente in auge a seguito della diffusione sui social della teoria, fatta circolare da alcuni esponenti della diaspora cambogiana, secondo cui il CLV comporterà una cessione di sovranità di parte del territorio cambogiano al Vietnam. Una delle principali figure dell’opposizione in esilio, Mu Sochua, sostiene che il CLV sia «una copertura per ulteriori deforestazioni illegali, espropriazioni terriere e sfruttamento delle risorse naturali a fini di lucro». L’argomento è sensibile e, per le autorità cambogiane, le proteste rientravano in un più ampio tentativo di rovesciare il governo.

Nel frattempo continuano a essere arrestati i leader dei partiti di opposizione, l’ultimo Chin Bunnaroth del National Power Party, incarcerato a inizio settembre. Fa inoltre ancora discutere la base navale di Ream: due navi militari cinesi resteranno lì in via permanente, prima di essere vendute all’esercito cambogiano nel 2025, alimentando i sospetti sul fatto che la base verrà utilizzata regolarmente dalla marina militare di Pechino.

MALAYSIA – Il primo ministro malaysiano Anwar Ibrahim è come sempre molto attivo in politica estera. Il 6 settembre Anwar ha partecipato al nono Forum economico orientale a Vladivostok, in Russia, e incontrato il presidente russo Vladimir Putin. Nelle settimane precedenti aveva duramente criticato gli Stati Uniti per il supporto a Israele, ribadendo il sostegno della Malaysia alla causa palestinese dopo aver annunciato di aver bloccato ogni commercio diretto con Tel Aviv. A metà agosto Anwar si era anche recato in India, dove aveva incontrato il premier Narendra Modi: i due hanno elevato le relazioni bilaterali tra i due paesi al rango di partenariato strategico. Ha poi creato un certo imbarazzo una nota di febbraio, pubblicata negli scorsi giorni dall’Inquirer (media filippino), con cui la Cina aveva chiesto alla Malaysia di interrompere le sue attività estrattive nelle zone contese del mar Cinese meridionale.

Politica interna. La coalizione di governo ha vinto le elezioni suppletive a Kelantan. Ma più che essere una buona notizia per Anwar lo è per l’UMNO, il secondo partito della coalizione. L’ex primo ministro Muhyiddin Yassin è stato poi accusato di sedizione per alcuni suoi commenti nei confronti del re.

SINGAPORE – Il 18 agosto il premier Lawrence Wong ha tenuto il suo primo discorso alla nazione. Per quanto alcuni media del paese (come CNA e lo Straits Times) abbiano cercato di dipingerlo come un discorso di «cambiamento», dai contenuti per certi versi radicali, la linea tenuta da Wong non si è discostata granché da quella di tutti i suoi predecessori (a Singapore governa lo stesso partito, il PAP, fin dall’indipendenza del 1965). L’analisi di Jom. Intanto negli ultimi giorni hanno visitato Singapore sia il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, sia il premier indiano Modi, che ha firmato con Wong 4 memorandum d’intesa su chip, nuove tecnologie e sanità (Modi è poi stato anche in Brunei).

LINK DALL’ALTRA ASIA

Asia meridionale. Un mese fa in Bangladesh si è insediato il governo tecnico di Mohammad Yunus (qui per il contesto): il Nikkei spiega quali sono le tante sfide che si prospettano per il paese. Dal 20 al 22 agosto Cina e Bhutan si sono parlate per cercare di fare progressi nella risoluzione delle dispute di confine (qui un resoconto). In Pakistan è stato arrestato l’ex capo dell’intelligence Faiz Hameed, e non è una buona notizia per l’ex premier Imran Khan. Il 25 agosto ci sono stati poi una serie di attacchi terroristici in Balochistan, che hanno ucciso più di 74 persone: Al Jazeera e Deutsche Welle provano a spiegare cosa è successo. Intanto il governo pakistano sta cercando di controllare internet seguendo il modello cinese. Un articolo del Nikkei per comprendere le elezioni presidenziali in Sri Lanka, che si terranno il prossimo 21 settembre.

Asia centrale. Sono passati tre anni dal ritorno al potere dei talebani in Afghanistan: tre anni di sofferenze per tutta la società civile, e in particolare per le donne. Il 6 ottobre in Kazakistan si terrà un referendum per decidere se costruire impianti nucleari nel paese.

Pacifico. Il 14 e 19 agosto si è votato a Kiribati: qui i risultati delle elezioni. Dal 26 al 30 agosto si è poi tenuto il Forum dei leader delle isole del Pacifico (PIF), con al centro le iniziative per il contrasto al cambiamento climatico (e una questione che ha fatto arrabbiare la Cina: c’entra Taiwan). Il 20 agosto il presidente cinese Xi Jinping aveva invece incontrato il primo ministro delle Fiji, Sitiveni Rabuka, in visita nel paese (qui i dettagli). Australia e Giappone rafforzeranno la propria cooperazione nel settore della difesa, con esercitazioni congiunte sia navali che aeree.

Visite importanti. Il 3 settembre il presidente russo Vladimir Putin ha visitato la Mongolia senza essere arrestato: le autorità mongole hanno ignorato il mandato di cattura della Corte Penale Internazionale. Nei vari incontri si è discusso di energia, soprattutto: delle relazioni tra la Mongolia e i suoi grandi vicini ne hanno parlato qui a Radio Radicale. Sempre il 3 settembre Papa Francesco ha iniziato il suo viaggio di 12 giorni nel Sud-Est asiatico, con tappe in Indonesia (dove è stato accolto con sorprendente entusiasmo), Papua Nuova Guinea, Timor-Leste e Singapore.

A cura di Francesco Mattogno