Dissanayake Sri Lanka elezioni presidente

L’Altra Asia – La vittoria di un “uomo del popolo”, in Sri Lanka

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

La vittoria di Dissanayake in Sri Lanka, un leader di sinistra e “uomo del popolo”, totalmente estraneo alle storiche élite politiche del paese. Perché è importante il processo a un ex ministro, a Singapore, le ultime dal Myanmar, il viaggio negli Stati Uniti del leader vietnamita To Lam e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)

Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:

  • Sri Lanka – La vittoria di Dissanayake alle presidenziali, anticipate a novembre le elezioni parlamentari
  • Singapore – Il processo all’ex ministro dei Trasporti S. Iswaran, all’ex premier Lee Hsien Loong non piace molto la democrazia, aumentano i favorevoli alla pena di morte
  • Myanmar – Le voci sulle condanne a morte dei dissidenti, aumenta il numero dei morti causati dal tifone Yagi, i bombardamenti del regime salgono di intensità, i complicati rapporti internazionali della giunta
  • Vietnam – Il viaggio del segretario generale To Lam negli Stati Uniti

Anura Kumara Dissanayake ha 55 anni ed è figlio di un impiegato nell’amministrazione pubblica e di una casalinga. Quando era piccolo, ha raccontato un suo vicino al Nikkei, la sua famiglia viveva in una modesta casa senza elettricità nel villaggio di Thambuttegama, nel centro-nord dello Sri Lanka. Andare a scuola era un privilegio e per pagarsi gli studi il giovane Dissanayake ha fatto un po’ di tutto, dal venditore di caramelle e sigarette al tutor scolastico, mentre crescendo si interessava alla politica.

Nonostante alcuni ostacoli, legati alla sua affiliazione al Janatha Vimukthi Peramuna (JVP, cioè il “Fronte Popolare di Liberazione”), nei primi anni Novanta Dissanayake si è laureato in Scienze Fisiche all’Università di Kelaniya. Scherzando, ha dichiarato uno dei suoi compagni di stanza, una volta ha detto che «se il suo progetto di diventare un agricoltore fosse fallito, allora sarebbe diventato presidente». Aveva ragione. Lo scorso 23 settembre, due giorni dopo aver vinto le elezioni presidenziali, Dissanayake ha giurato come decimo capo di stato della storia dello Sri Lanka.

Il voto del 21 settembre chiamava 17 milioni di srilankesi aventi diritto (su 22 milioni di cittadini) a eleggere il nuovo presidente a oltre due anni di distanza dal default del paese e dalle conseguenti enormi proteste che costrinsero l’allora capo di stato, Gotabaya Rajapaksa, a dimettersi e a scappare alle Maldive. Malgrado la forza di quelle manifestazioni, durante le quali Dissanayake e il JVP svolsero un ruolo centrale, l’establishment riuscì a salvare il salvabile: il parlamento, ancora dominato dal partito dei Rajapaksa, il Fronte Popolare dello Sri Lanka (SLPP), votò per eleggere come presidente il moderato Ranil Wickremensinghe. La mossa bastò per tranquillizzare i partner internazionali ed evitare una rivoluzione come quella che sarebbe avvenuta in Bangladesh ad agosto di quest’anno, in un contesto molto simile.

In questi due anni Wickremesinghe ha avuto il merito di stabilizzare l’economia del paese, ripristinando le riserve di valuta estera, rinegoziando buona parte del debito pubblico e frenando l’inflazione. Lo ha fatto grazie all’aiuto del Fondo Monetario Internazionale (IMF) – con cui lo Sri Lanka ha stipulato un accordo di prestito da 2,9 miliardi di dollari – a discapito però delle categorie più fragili della popolazione, cioè aumentando tasse e bollette e rimuovendo gran parte dei sussidi. A poco è servita la crescita del PIL (+ 5% nella prima metà del 2024). Per molti srilankesi il costo dei beni di prima necessità è diventato insostenibile e il tasso di povertà ha raggiunto livelli record (di come sta lo Sri Lanka avevamo parlato qui, ad aprile).

La condizione economica del paese è stata dunque il tema fondamentale della campagna elettorale, che contava 38 candidati alla presidenza, tutti uomini e tutti di etnia singalese. Quelli con reali possibilità di vittoria erano tre: Dissanayake, Wickremesinghe e Sajith Premadasa, capo dell’opposizione e altra figura considerata esterna all’establishment. Già da tempo, comunque, i sondaggi davano Dissanayake in grande vantaggio. Il leader del JVP è riuscito a presentarsi agli elettori come un vero outsider, un “uomo del popolo”, fuori dal giro delle dinastie politiche che governano il paese da decenni.

Li ha convinti grazie alla sua storia personale e coltivando con cura, negli ultimi due anni, la popolarità raggiunta a seguito della sua partecipazione attiva alle proteste del 2022. A questo si aggiungono le promesse su economia e lavoro. Tra le altre cose, Dissanayake si è impegnato ad abbassare le tasse, a rimuovere l’IVA sui prodotti sanitari, alimentari e scolastici, a sostenere la manifattura locale e a rivedere le condizioni dell’accordo con l’IMF per alleggerire la pressione sulle famiglie in difficoltà. L’obiettivo, secondo il suo programma, non è concentrarsi sulla crescita del PIL ma migliorare la qualità di vita generale della popolazione.

Alla fine, con l’affluenza quasi all’80%, ha ottenuto 5,6 milioni di voti, il 42,3%. Sajith si è fermato al 32,7%, Wikremesinghe al 17,3% e Namal Rajapaksa, erede della famiglia che ha portato il paese al default, al 2,6% con 342.000 preferenze (nel 2019 suo zio Gotabaya aveva vinto con 6,9 milioni di voti). È la prima volta che in Sri Lanka un presidente viene eletto con meno del 50% delle preferenze.

Per quanto annunciata, la vittoria di Dissanayake è clamorosa per due ragioni. La prima è la rottura di quell’alternanza tra i due campi politici elitari (quello dei Rajapaksa e del Partito Nazionale Unito, UNP, da dove proviene Wickremesinghe) che si sono spartiti il potere per decenni, fin dagli anni Settanta. La seconda è dovuta proprio alla storia di Dissanayake e del JVP.

Negli anni Settanta e Ottanta il partito, di matrice marxista, organizzò due violente insurrezioni, represse nel sangue. Durante la seconda rivolta la stessa casa di Dissanayake (già membro del JVP) venne data alle fiamme e suo cugino, che il neopresidente considerava come un fratello, fu ucciso da un colpo d’arma da fuoco esploso non troppo distante da lui. Il JVP venne dichiarato illegale e per diversi anni sopravvisse in clandestinità: è il motivo per cui Dissanayake, visto con sospetto, completò gli studi universitari con difficoltà.

Il JVP è tornato a far parte della vita politica del paese dai primi anni Duemila (Dissanayake è stato ministro dell’Agricoltura e dell’Allevamento dal 2004 al 2005). Lo stigma nei confronti del partito non è mai sparito del tutto, ma da quando Dissanayake ne è diventato il leader, nel 2014, le cose hanno iniziato a cambiare. Dissanayake si è scusato per le violenze del passato e ha cambiato volto al JVP, spostandosi su posizioni più vicine alla socialdemocrazia che al comunismo novecentesco. Anche per questo l’etichetta di “marxista”, che in questi giorni gli hanno affibbiato i media di tutto il mondo, non può che essere una semplificazione.

A coronamento di questo “rebranding” il JVP si è messo alla guida di una coalizione socialista, il Potere Popolare Nazionale (NPP), e ha cominciato ad accogliere nel partito tecnocrati, accademici, esperti ed esponenti di vari gruppi della società civile del paese. Una trasformazione che, comunque, prima di un paio di anni fa non aveva portato un grande aumento dei consensi: alle elezioni legislative del 2020 la coalizione del NPP si era fermata a 3 seggi sui 225 del parlamento unicamerale, mentre alle presidenziali del 2019 Dissanayake aveva ottenuto il 3%. È chiaro dunque che le proteste del 2022 abbiano rappresentato uno spartiacque decisivo per l’ascesa della sinistra, che ha puntato su un leader molto popolare tra i giovani srilankesi.

Come prevedibile, visto che la composizione del parlamento non rappresentava più il mandato popolare, il 24 settembre Dissanayake ha sciolto la camera con undici mesi di anticipo e indetto nuove elezioni legislative, che si terranno il 14 novembre. Le prospettive non sono delle più semplici. Secondo alcuni sondaggi l’NPP si aggira attorno al 28% ed è complicato pensare che possa raggiungere la maggioranza assoluta. Servirà probabilmente un governo di coalizione, un’ipotesi scivolosa per un leader, Dissanayake, che si è presentato allo Sri Lanka come qualcuno che ha intenzione di “ripulire” la classe politica del paese. È più facile pensare che gli avversari gli renderanno la vita difficile, spingendo anche sui timori legati alle idee economiche di Dissanayake, che preoccupano soprattutto gli investitori esteri.

La ridiscussione dell’accordo con l’IMF (che il presidente ha detto di non voler rescindere) sarà cruciale per capire se questo nuovo corso avrà davvero i mezzi per discostarsi dal recente passato. «Non sono un mago, ma un normale cittadino», ha detto Dissanayake durante la sua cerimonia d’insediamento, chiamando il paese all’unità, anche sul piano etnico e religioso (un riferimento in particolare alla minoranza Tamil, più volte osteggiata da Dissanayake in passato). E intanto ha nominato come prima ministra l’attivista per i diritti di genere e delle minoranze Harini Amarasuriya.

Per quanto riguarda gli esteri, il presidente ha già incassato il supporto di IMF e Banca Mondiale e, sconfessando almeno a parole chi lo definiva vicino a Pechino per questioni ideologiche, ha detto che il suo Sri Lanka «lavorerà con tutti». Cioè indistintamente con India, Cina e Stati Uniti.

SINGAPORE – L’INCORRUTTIBILE E DEMOCRATICO PAP

Il 24 settembre è iniziato il processo a carico dell’ex ministro dei Trasporti di Singapore, Subramaniam Iswaran, e c’è stato subito una sorta di colpo di scena. Iswaran si è dichiarato colpevole di aver ricevuto regali “preziosi” durante il suo mandato e ha chiesto un patteggiamento. Si tratta di uno sviluppo inaspettato perché l’ex ministro, una volta rese note le accuse a suo carico, a seguito delle quali si era dimesso, aveva dichiarato che avrebbe dimostrato in tribunale la sua innocenza. E invece il processo non è nemmeno partito. C’è però un importante dettaglio da sottolineare: della trentina di accuse che pendevano sulla testa di Iswaran, la maggior parte delle quali per corruzione, ne sono rimaste a malapena cinque. Tutte le incriminazioni per corruzione sono state fatte decadere, lasciando attive solo quelle meno gravi, e questo è il motivo per cui l’ex ministro ha accettato il patteggiamento.

Secondo la versione dell’Ufficio del procuratore generale, che si occupa del caso, provare la corruzione di Iswaran sarebbe stato complicato, mentre con il patteggiamento sarà invece garantita una condanna almeno per quanto riguarda gli altri capi di imputazione. L’ex ministro era accusato di corruzione per aver ricevuto dei “regali di valore” da Ong Beng Seng e da David Lum in cambio di vari favori (il primo era l’azionista di maggioranza della società che si occupa dell’organizzazione del Gran Premio di Formula 1 di Singapore, il secondo l’amministratore delegato di una società di costruzioni). Si parla principalmente di biglietti per partite di calcio, spettacoli o per le stesse gare del GP di Singapore, dal valore complessivo di circa 400 mila dollari.

Anche senza corruzione comprovata, la legge della città-stato impedisce ai politici di ricevere beni preziosi e Iswaran rischia comunque di passare del tempo in carcere. Chiaro che si parla forse di qualche mese, non anni, considerando anche che con il patteggiamento otterrà in automatico uno sconto di pena. La sentenza è prevista per il 3 ottobre. Per quanto depotenziato, il caso è importante perché, oltre al fatto che Iswaran potrebbe diventare il secondo ministro singaporiano ad andare in carcere negli ultimi 50 anni, ha intaccato quell’aura di incorruttibilità che circonda da sempre il Partito Popolare d’Azione (PAP), cioè la forza politica che governa il paese fin dalla sua indipendenza nel 1965 e che, complici altri scandali, si trova in difficoltà (ne avevamo parlato qui).

Tanto in difficoltà che l’ex primo ministro Lee Hsien Loong ha lanciato una sorta di appello ai cittadini dicendo loro di…non votare per l’opposizione. «Se i margini elettorali si assottigliano, il governo avrà meno spazio politico per fare le cose giuste», ha dichiarato Lee. Il senior minister si è detto preoccupato dal rischio che anche Singapore diventi un paese in cui i partiti dovranno fare promesse sul breve periodo a scopi elettorali invece che sviluppare progetti a lungo termine, cosa che il PAP ha sempre garantito alla luce del suo storico dominio parlamentare. Insomma, è il classico argomento che si tira in ballo per difendere gli autoritarismi. «Il problema di questa scuola di pensiero è che sempre più singaporiani, preoccupati per le gravi disuguaglianze sociali e per le discutibili politiche di utilizzo del territorio, iniziano invece a chiedersi: se questa direzione a lungo termine è sbagliata, cosa dobbiamo fare?», scrive Jom. Qui una breve analisi anche della giornalista Kirsten Han.

Intanto sempre più singaporiani sono a favore della pena di morte. Secondo i dati del ministero degli Interni, il sostegno nei confronti delle esecuzioni di stato è cresciuto dal 73,7% del 2021 all’attuale 77,4%. Tutto in linea con la narrazione del PAP, che da sempre sostiene (senza prove) che la pena di morte serva a rendere il paese più sicuro.

MYANMAR – CONDANNE A MORTE E BOMBARDAMENTI

A proposito di pena di morte. Nell’ultima settimana in Myanmar sono circolate varie voci secondo cui la giunta avrebbe giustiziato diversi prigionieri politici, mentre si dice che avrebbe in programma di eseguire altre condanne a morte nelle prossime settimane. Al momento non c’è nulla di verificato e c’è chi sostiene che potrebbe trattarsi anche di una forma di terrorismo psicologico a opera del regime.

Nel frattempo continua ad aumentare il bilancio dei morti causati dal tifone Yagi, che ora sono 419, mentre secondo i dati delle Nazioni Unite le persone colpite dalle alluvioni in tutto il paese sono state 887 mila (qui per maggiori dettagli). Nonostante la situazione di grave emergenza, nelle ultime settimane la giunta ha aumentato l’intensità dei bombardamenti su case, scuole e altri edifici pubblici (in particolare a Lashio, nel Nord Shan). L’esercito sta poi approfittando delle alluvioni per riconquistare terreno nello Stato Kayah (Karenni), mentre le operazioni di soccorso vengono portate avanti dai ribelli.

La giunta ha chiesto – e ottenuto – vari milioni di aiuti internazionali per i danni causati dal Yagi, eppure dal 2021 non ha problemi a finanziare il massacro quotidiano della sua stessa popolazione. Secondo l’Irrawaddy il regime starebbe inoltre acquistando a tale scopo armi, droni e altri mezzi militari israeliani. Nonostante questo, le controffensive organizzate negli ultimi mesi per riprendersi alcuni dei territori conquistati dai ribelli non sono andate benissimo. La giunta resta in difficoltà e lo scorso 23 settembre il suo leader, Min Aung Hlaing, ha visitato la città di Pyin Oo Lwin, fondamentale per la difesa di Mandalay, allo scopo di organizzare le prossime fasi del conflitto. In una nota, il regime ha anche detto di essere aperto al dialogo con le forze ribelli (ma il governo democratico in esilio ha già rigettato l’invito).

Intanto arrivano brutte notizie per il regime anche sul piano internazionale. L’India, che di certo non ha un governo ostile alla giunta, ha invitato alcuni dei gruppi ribelli che operano al confine tra i due paesi a una conferenza sul federalismo che si terrà a novembre a Nuova Delhi. Il Giappone ha declassato le relazioni diplomatiche con Naypyidaw, sostituendo il suo ambasciatore nel paese con un incaricato d’affari. E il Papa ha chiesto la liberazione della leader democratica Aung San Suu Kyi, alla quale ha offerto asilo in Vaticano.

VIETNAM – TO LAM, IL DIPLOMATICO CHE PENSA AGLI AFFARI

Sono stati giorni di grande diplomazia quelli del segretario generale del Partito Comunista del Vietnam (CPV) e presidente del paese, To Lam. Lam è arrivato negli Stati Uniti il 21 settembre allo scopo di partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma ha riempito il suo viaggio di incontri a scopo politico e commerciale. Tra gli altri, ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente della Banca Mondiale Ajay Banga, prima di sedersi al tavolo con il presidente americano Joe Biden il 25 settembre.

Durante i colloqui i due leader hanno elogiato il rafforzamento dei legami bilaterali tra Washington e Hanoi (è da poco passato un anno dalla firma della partnership strategica globale), anche se Lam ha rimarcato l’importanza di una politica estera «indipendente e multilaterale» per il Vietnam. L’incontro è stato importante per legittimare e consolidare definitivamente l’ascesa di Lam al vertice del CPV, ma sul piano economico sono stati più rilevanti i colloqui con i rappresentanti di Google, Meta e altre grandi multinazionali americane del settore tecnologico ed energetico.

Non è stato comunque un viaggio esente da critiche. Prima della partenza di Lam per gli Stati Uniti il governo vietnamita ha rilasciato diversi prigionieri politici, una mossa che secondo gli attivisti per la tutela dei diritti umani è servita solo a ripulire l’immagine del segretario in vista degli impegni internazionali. L’articolo di Human Rights Watch. Dopo aver lasciato gli Stati Uniti, il 25 settembre, Lam si è poi recato in visita ufficiale a Cuba.

LINK DALL’ALTRA ASIA

Dopo le proteste che nelle scorse settimane avevano scosso il paese, con le autorità che ne avevano parlato come di un tentativo di «rovesciare il governo», la Cambogia si è ritirata dall’accordo di cooperazione e sviluppo siglato vent’anni fa con Vietnam e Laos. «Il fatto potrebbe riflettere la perenne preoccupazione [della Cambogia] di essere vista come una marionetta di Hanoi», scrive Sebastian Strangio sul Diplomat. Non si fermano le tempeste nel Sud-Est asiatico: negli ultimi giorni le piogge torrenziali hanno colpito sette province cambogiane, causando diversi danni.

Da quando la Teresa Magbanua ha lasciato la zona, il numero delle navi cinesi a largo dell’atollo di Sabina (che si trova all’interno della Zona Economica Esclusiva delle Filippine, nel mar Cinese meridionale) sta aumentando. Intanto c’è chi chiede le dimissioni della vicepresidente Sara Duterte: per un ripasso di come i Marcos stanno cercando di vincere questa “battaglia” di potere tra famiglie, un articolo di Asia Sentinel.

Il parlamento dell’Indonesia ha approvato il budget presentato dal presidente eletto Prabowo Subianto per il 2025. Poi è ufficialmente partita la campagna elettorale per le elezioni provinciali che si terranno il 25 novembre: probabilmente Anies Baswedan, candidato arrivato secondo alle presidenziali di febbraio, non correrà come governatore di Giacarta. Anies ha perso il sostegno di tutti i partiti che lo avevano appoggiato nel voto nazionale, passati alla coalizione di Prabowo. E si dice addirittura che anche il PDI-P, unico partito rimasto all’opposizione, potrebbe unirsi al governo dell’ex generale. Sarebbe clamoroso.

La Thailandia ha ufficialmente approvato il matrimonio egualitario: mancava solo l’approvazione del re, è arrivata il 24 settembre. Ne avevamo parlato qui.

Il Fondo Monetario Internazionale ha infine accettato di prestare altri 7 miliardi di dollari al Pakistan. Intanto Islamabad sta per finalizzare un accordo con Pechino per la creazione di agenzie di sicurezza congiunte che serviranno a proteggere i lavoratori cinesi nel paese, spesso bersaglio di attacchi terroristici. È stato poi nominato il nuovo capo dell’intelligence, il tenente generale Asim Malik, che coordinerà proprio le operazioni di anti-terrorismo.

A cura di Francesco Mattogno