A due anni dalla depenalizzazione, la Thailandia potrebbe inserire nuovamente la cannabis nella lista degli stupefacenti, smantellando un settore potenzialmente da miliardi di dollari. I problemi economici del Myanmar, le controversie a più livelli sul Mar Cinese meridionale tra Filippine e Cina, l’annientamento dell’opposizione in Indonesia, le disuguaglianze di Singapore e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per le altre puntate)
La depenalizzazione del consumo di cannabis a basso contenuto di tetraidrocannabinolo (THC), ufficializzata il 9 giugno 2022, rientra senza dubbio tra le tante contraddizioni che caratterizzano la Thailandia, che in occidente appare spesso come un paese molto più progressista di quello che è in realtà (lo ha spiegato a China Files l’antropologo Claudio Sopranzetti). Il contesto politico nel quale due anni fa Bangkok decise di allentare la repressione della marijuana, trasformando la Thailandia nel primo Stato asiatico a permetterne l’uso ricreativo, era tutt’altro che riformatore, o illuminato.
Il 9 giugno 2022 governava ancora Prayut Chan-o-cha, il generale che ha guidato il golpe del 2014 e che nel 2019 era stato nominato primo ministro di un governo eletto (a seguito di un voto non propriamente definibile come “libero ed equo”), ma con una forte componente militare al suo interno. Ad aver aperto al consumo di cannabis è stato quindi l’esercito, teoricamente una delle istituzioni più conservatrici del paese, che governava in coalizione con una serie di partiti civili. Il più grande di questi era il Bhumjaithai (BJT) dell’allora vicepremier e ministro della Salute, Anutin Charnvirakul, tra i maggiori sostenitori della depenalizzazione della marijuana in Thailandia.
Dopo averlo promesso in campagna elettorale, nell’estate del 2022 Anutin è riuscito a convincere gli alleati e a ottenere una larga maggioranza in parlamento per portare alla rimozione della cannabis a basso contenuto di THC dalla lista delle sostanze stupefacenti. Una vittoria che, a distanza di poco meno di due anni, potrebbe essere cancellata da un nuovo governo, questa volta a trazione civile, del quale lui stesso è vicepremier e ministro degli Interni.
Attraverso un post su X, l’8 maggio il primo ministro thailandese, Srettha Thavisin, ha annunciato di voler reinserire la marijuana a basso contenuto di THC nella lista degli stupefacenti. La cannabis non sarebbe considerata una droga pesante come eroina o cocaina, ma tornerebbe a esserne illegale la coltivazione, la vendita e il possesso, con pene fino a 15 anni di carcere. Srettha e il suo partito, il Pheu Thai, avevano promesso di reprimere il consumo di marijuana già in campagna elettorale, e lo stesso avevano fatto tutti i grandi partiti, compreso il progressista Move Forward e in parte anche il BJT di Anutin, che sosteneva di volerne rafforzare la regolamentazione.
Secondo quanto annunciato, l’uso medico della cannabis resterà legale e la repressione si limiterà al consumo ricreativo, cioè il vero oggetto di quella che Srettha ha definito essere una «guerra alle droghe», che prevede misure anche contro altre sostanze, molto più pericolose della marijuana. Tecnicamente, la depenalizzazione del 2022 è arrivata a seguito di un’ordinanza del ministero della Salute che si è limitato a inserire la canapa all’interno delle “erbe controllate”: non si è trattata di una vera e propria legge, e questo si è rivelato essere il suo più grande problema.
Al di là di alcune indicazioni minime (come la necessità di una licenza per la coltivazione, il divieto di fumare in pubblico o di vendita ai minori di vent’anni), l’uso ricreativo della cannabis non è mai stato davvero regolamentato, ed è diventato tollerabile solo a seguito di un vuoto normativo. Un vuoto dovuto anche al fatto che, nei mesi successivi alla depenalizzazione, il parlamento ha cambiato idea sulla questione, non permettendo di trasformare in legge le diverse bozze presentate da Anutin. Una legge avrebbe rafforzato i controlli e la solidità normativa del consumo legalizzato di cannabis, che oggi sarebbe risultato più difficile da rovesciare.
Mentre i partiti litigavano sulla questione, poi accantonata con l’inizio della campagna elettorale per le elezioni del maggio 2023, in due anni sono nati circa 8 mila negozi in tutto il paese per la vendita al pubblico di infiorescenze, oli o altri prodotti a base di canapa, e oltre 1 milione di thailandesi hanno richiesto e ottenuto le licenze per la coltivazione. Nonostante sia teoricamente legale solo la vendita di marijuana con un contenuto di THC inferiore allo 0,2% (simile alla “cannabis light” in Italia), la mancanza di una legge ha reso possibile anche il commercio di cannabis a un livello normale di THC, ovvero il principio attivo che rende psicotropo il consumo di erba. Le infiorescenze con bassissima percentuale di THC non hanno però alcun effetto alterante: parlare di «guerra alla droga» in riferimento a questo tipo di cannabis, e considerarla uno stupefacente, è una posizione che non si fonda su alcuna base scientifica.
Lo affermano anche diverse associazioni thailandesi a sostegno legalizzazione della cannabis, che hanno chiesto al governo di portare delle prove scientifiche a sostegno del fatto che la marijuana sia più dannosa di alcol e sigarette. Per il 16 maggio è in programma una prima protesta a Bangkok e, se l’iter per il ban della cannabis dovesse procedere, si prevedono altre manifestazioni e class-action. A due anni dalla depenalizzazione, l’industria della coltivazione e vendita dei prodotti a base di canapa si è ormai consolidata come una realtà importante all’interno del sistema economico thailandese: un divieto metterebbe in ginocchio migliaia di piccoli imprenditori e lavoratori.
Secondo le stime, il settore potrebbe arrivare a valere 1,2 miliardi di dollari nel 2025, per superare i 9 miliardi entro il 2030. La “guerra alla droga” rischierebbe di consegnare nuovamente questo enorme mercato nelle mani della criminalità organizzata, ma Srettha non sembra propenso a tornare indietro. Il primo ministro ha detto al suo nuovo ministro della Salute, Somsak Thepsutin, che ha 90 giorni di tempo per presentare dei progressi a riguardo. A eccezione degli usi medici, consumare cannabis in Thailandia potrebbe tornare a essere illegale entro la fine del 2024.
THAILANDIA/2 – I PROBLEMI DEL GOVERNO, IL NUOVO SENATO, SRETTHA IN ITALIA
Tutto il discorso legato alla cannabis minacciava di creare nuove fratture nel governo, visto che il BJT è il secondo partito più grande all’interno della coalizione. Per ora non sembra che andrà così, dato che anche lo stesso Anutin, rimasto solo, pare essersi rassegnato all’idea del passo indietro in tema cannabis. Questo non significa che Srettha non abbia i suoi problemi. Secondo diversi analisti, il rimpasto di governo di un paio di settimane fa avrebbe spaccato internamente il Pheu Thai. I due profili che hanno fatto il più grande passo in avanti sono stati infatti il neo ministro della Salute Somsak e Suriya Juangroongruangk, ministro dei Trasporti promosso a vicepremier, nonostante fossero entrambi vicini al governo golpista di Prayut. Oltre all’ascesa di personaggi legati all’establishment conservatore, di cui ormai il Pheu Thai è membro a pieno titolo, si è registrata anche quella dei fedelissimi dei Shinawatra, come il nuovo ministro degli Esteri Maris Sangiampongsa. Insomma: diversi esponenti del partito non hanno preso bene i cambiamenti e la posizione di Srettha appare sempre più precaria. Un articolo del Nikkei per approfondire.
Il 10 maggio è scaduto ufficialmente il mandato dei 250 senatori nominati dalla giunta militare di Prayut, nel 2017. Il fatto che abbiano avuto il potere di votare per il primo ministro è stato decisivo per impedire al Move Forward, vincitore delle scorse elezioni, di formare un governo. Il nuovo senato sarà composto da 200 membri, nominati con un meccanismo contorto e ambiguo. Saranno gli stessi candidati, provenienti da vari settori professionali del paese, a votare per decidere chi tra di loro entrerà alla camera alta. Si temono manipolazioni e compravendita di voti. Le elezioni andranno avanti a più livelli per tutto giugno, mentre i risultati sono previsti per il 2 luglio: fino ad allora gli attuali 250 senatori resteranno in carica ad interim. Il nuovo senato non potrà più votare per l’elezione del primo ministro.
Nelle scorse settimane si è discusso molto della commercializzazione di un lotto di riso rimasto nei magazzini statali per oltre 10 anni, dopo essere stato sequestrato a seguito delle indagini sull’allora premier Yingluck Shinawatra, condannata a 5 anni per aver gestito male il suo programma di raccolta governativa del cereale. Secondo il governo il riso è ancora commestibile, ma non tutti sembrano convinti. Intanto Srettha ha annunciato una serie di viaggi all’estero: il primo ministro sarà in Francia e Italia dal 15 al 21 maggio, prima di andare in Giappone dal 22 al 24.
MYANMAR – I PROBLEMI ECONOMICI DEL REGIME, LE VITTORIE DELLA RESISTENZA
Nonostante i vari interventi della banca centrale, la svalutazione del kyat (la valuta birmana) sembra al momento continua e inesorabile. L’isolamento internazionale del regime militare, che dal colpo di Stato del 2021 ha praticamente distrutto l’economia del paese, non è l’unica causa alla base del fenomeno. Secondo il Nikkei, anche la legge sulla coscrizione obbligatoria starebbe contribuendo al deprezzamento della valuta: molti giovani birmani sono fuggiti all’estero e per farlo hanno ritirato la più grande quantità di dollari e di kyat possibile, aggravando l’inflazione. Dal 2023 il prezzo di riso, cipolla e aglio è cresciuto del 50%, così come è aumentato il costo di benzina, medicinali e altri beni di prima necessità. Intanto, per evitare la fuga dei possibili candidati alla coscrizione, la giunta ha ridotto il numero di uomini in età da leva a cui è permesso andare a lavorare all’estero. In un primo momento era stato annunciato un divieto totale alle emigrazioni, poi c’è stato un parziale passo indietro e il regime ha detto che circa la metà delle richieste verrà accolta. Le alternative per sfuggire alla leva, oltre all’emigrazione illegale, sono iscriversi all’università o unirsi alla resistenza.
Alcune notizie in breve. Mentre Myawaddy si prendeva i titoli dei giornali (anche qui), le forze ribelli sono avanzate in diverse zone del paese, dallo Stato Kachin al Rakhine, passando per lo Stato Chin. Lì, al confine col Rakhine, il regime ha perso Kyindwe, una città strategica che potrebbe diventare una roccaforte della resistenza, scrive l’Irrawaddy. Il numero due del regime, Soe Win, è tornato a farsi vedere in pubblico dopo oltre un mese di assenza. L’esercito ha ucciso 30 persone a Myinmu, nella regione del Sagaing, in un raid contro le People’s Defence Forces (PDF), le truppe che combattono per conto del governo in esilio (NUG). Almeno altre 20 persone sono rimaste uccise in un bombardamento del regime su un monastero nella regione di Magway: è stato un «attacco di precisione», sostengono i ribelli, visto che in quel momento era in corso una riunione di amministratori locali del NUG. Un attacco delle PDF avrebbe invece causato 30 morti nel villaggio di Hsone (regione di Mandalay), rimasti uccisi nel fuoco incrociato.
La giunta ha poi rifiutato la richiesta del presidente del senato ed ex premier cambogiano Hun Sen di parlare con Aung San Suu Kyi. Invece lo scorso 13 aprile l’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra ha incontrato alcuni esponenti della resistenza durante la sua visita a Chiang Mai. Le Guardie di Frontiera Karen (o KNA) hanno detto che agiranno contro gli stranieri (cioè i cinesi) attivi nelle cosiddette “scam cities”: non è chiaro se si tratta di una operazione estetica o di una reale repressione del settore, che è molto redditizio per il gruppo. Sono state riaperte alcune frontiere per il commercio con la Cina controllate dai ribelli, nello Stato Shan.
Numeri. I morti civili accertati dal colpo di Stato sono quasi 5 mila, ma alcune stime parlano di 50 mila vittime, considerando anche i soldati. Le case date alle fiamme dal regime sono invece 88.373, e 2,7 milioni gli sfollati interni causati dai combattimenti (3 milioni in totale considerando i 300 mila che già non avevano una casa prima del golpe). Secondo il NUG, i ribelli controllano ormai il 60% del Myanmar.
FILIPPINE – IL SOLITO MAR CINESE MERIDIONALE
Non passa settimana senza che il nome delle Filippine non venga associato a una crisi con la Cina sul Mar Cinese meridionale. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la trascrizione di una conversazione telefonica tra un viceammiraglio dell’esercito filippino (Alberto Carlos) e un diplomatico cinese diffusa dall’ambasciata cinese nelle Filippine. Durante la chiamata, che risale allo scorso gennaio, Carlos avrebbe detto che Manila acconsentiva a gestire le controversie sull’atollo conteso di Second Thomas secondo un nuovo accordo, che la Cina ha definito «nuovo modello» (qui per maggiori dettagli). Il governo filippino aveva smentito l’esistenza di un accordo tra le parti, e anche dopo questo ultimo sviluppo ha continuato a parlare di «disinformazione» da parte di Pechino. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale delle Filippine, Eduardo Ano, ha chiesto l’espulsione dei diplomatici cinesi dal paese, anche perché quanto fatto dall’ambasciata vìola la legge filippina. Intanto, l’11 maggio Manila ha detto di aver dispiegato una nave della sua guardia costiera a largo di un altro atollo conteso, quello di Sabina (che le Filippine chiamano Escoda), per monitorare alcune presunte attività illegali cinesi. Il sospetto è che Pechino stia costruendo un’isola artificiale nell’area.
Il 30 aprile c’era invece stato uno scontro tra le imbarcazioni cinesi e filippine. Quattro navi della guardia costiera di Pechino hanno speronato e sparato con dei cannoni ad acqua verso una nave filippina che portava rifornimenti (cibo e carburante) ai pescatori che si trovavano presso l’atollo di Scarborough. Secondo Manila, la pressione del getto d’acqua ha rotto alcune strutture d’acciaio della nave ed era quindi «in grado di uccidere». A bordo dell’imbarcazione filippina c’erano diversi giornalisti, e non è un caso. Da tempo Manila ha iniziato ad applicare la cosiddetta tattica della “trasparenza”, una sorta di denuncia mediatica continua finalizzata a mostrare al mondo cosa sta accadendo nel Mar Cinese meridionale. Come dimostrano le ultime ambiguità diplomatiche, però, il governo filippino sembra scegliere con cura cosa diffondere e cosa no.
INDONESIA – PIÙ MILITARI, MENO OPPOSIZIONE
Come riportato dal Nikkei, a marzo in Indonesia sono entrati in vigore alcuni emendamenti alla Legge sul servizio civile, emanata nel 2004, che permettono ai militari e alle forze di polizia ancora in servizio di ricoprire qualsiasi posizione civile all’interno del governo e delle aziende statali. Prima, sulla carta, questa possibilità era limitata al settore della Difesa e delle agenzie di intelligence, anche se all’atto pratico la presenza dei funzionari dell’esercito in politica era già stata sdoganata. Come scrive l’analista Virdika Rizky Utama, la militarizzazione della politica rischia però di erodere la credibilità della democrazia indonesiana, che già scricchiola. Jokowi è stato accusato di aver impiegato la polizia e i militari per ostacolare la campagna elettorale degli avversari di Prabowo Subianto (il presidente eletto di cui ha sostenuto la candidatura, anche se mai esplicitamente), per esempio impedendo alcuni comizi. Il rischio è che con un ex generale dell’esercito come Prabowo alla guida del paese questa tendenza non possa che peggiorare. Il presidente eletto vorrebbe istituire un comando dell’esercito in tutte e 38 le province del paese (attualmente i comandi sono solo 15), e c’è il timore che questo possa aggravare la repressione, soprattutto in luoghi come Papua.
Nel frattempo continuano le trattative per la formazione della nuova coalizione di governo. Come anticipato qui, l’obiettivo di Prabowo non è raggiungere la maggioranza, ma annientare l’opposizione. Seguendo l’esempio di Jokowi, la tattica del presidente eletto è quella di accogliere nell’esecutivo il maggior numero di partiti possibili, offrendo ai loro esponenti ministeri e posizioni di spicco nelle varie istituzioni governative (magari create ad hoc e senza una reale funzione). Un governo senza opposizione tende a essere più corrotto e autoritario, oltre che a usare le casse dello Stato per scopi clientelari. Un articolo di Asia Sentinel sulle preoccupazioni riguardo lo stato della democrazia indonesiana.
SINGAPORE – ESSERE RICCHI È BELLISSIMO
Secondo una pressocché inutile classifica stilata società di consulenza Henley&Partners, Singapore è la quarta città con il maggior numero di milionari al mondo, dietro solo a New York, la Bay Area di San Francisco e Tokyo. La cosa davvero interessante è che il numero dei milionari a Singapore è cresciuto del 64% negli ultimi 10 anni, merito del primo ministro uscente Lee Hsien Loong, che ha reso la città-stato un luogo in cui essere ricchi è bellissimo. Come scrive Jom, però, non lo è altrettanto essere persone comuni: il 30% delle famiglie vive con un reddito che non gli permette di soddisfare i propri bisogni di base. Eppure Singapore, mentre conta i propri milionari, non ha mai calcolato con la dovuta perizia quanto siano grandi le disuguaglianze di reddito interne al paese, per esempio attraverso il coefficiente di Gini. Forse perché «ha paura di guardarsi allo specchio», scrive Jom, visto anche che gran parte della crescita degli ultimi vent’anni è dovuta all’impiego di forza lavoro straniera non qualificata, spesso sfruttata, piuttosto che a un vero processo di innovazione.
Dal 15 maggio la città-stato avrà un nuovo primo ministro, Lawrence Wong. Lee – che continuerà a essere ministro senior – ha detto che «lascerà Singapore in buone mani». Uno dei compiti di Wong sarà quello di ripensare il sistema di redistribuzione del welfare, ma c’è scetticismo sul fatto che cambierà davvero qualcosa (delle sfide che dovrà affrontare Wong ne avevamo parlato qui).
LINK DALL’ALTRA ASIA
Aprile è stato un mese caldissimo, nel Sud-Est asiatico e in Asia meridionale. Non è in assoluto una novità (aprile è da sempre il mese più caldo nell’area), ma i dati mostrano che non era mai stato tanto caldo come quest’anno. In tantissime città del continente si sono superati regolarmente i 40 gradi, una condizione che non solo uccide le persone più fragili, ma che è allo stesso tempo conseguenza dei cambiamenti climatici e causa di disastri naturali (un clima di questo tipo aumenta il rischio di tifoni, per esempio). Secondo un report delle Nazioni Unite, nel 2023 l’Asia si è riscaldata più velocemente della media globale ed è stata l’area del mondo più colpita dagli eventi estremi, come inondazioni, tempeste e ondate di calore anomale.
La Malaysia ha in mente di imitare la “panda diplomacy” della Cina e iniziare a regalare o prestare oranghi agli Stati che comprano l’olio di palma prodotto nel paese. La cosiddetta “diplomazia degli oranghi” è un modo per rispondere al divieto imposto dall’Unione Europa all’acquisto di olio di palma prodotto in piantagioni connesse alla deforestazione, una misura che Kuala Lumpur ha definito «discriminatoria». Cambiando fronte, un articolo del Washington Post sulle controversie nel Mar Cinese meridionale tra Malaysia e Cina. Le dispute marittime nell’area vanno ben oltre gli scontri tra Pechino e Manila.
L’economia del Laos non va benissimo, anzi, mentre il kip continua a svalutarsi. Il gruppo di tutela dei diritti umani CIVICUS Monitor ha criticato la repressione online attuata da Vientiane. Il Laos è il primo paese del Sud-Est asiatico ad aver vietato le punizioni corporali nei confronti dei minori.
Le Isole Salomone hanno un nuovo primo ministro, Jeremiah Manele. È dello stesso partito del suo predecessore Manasseh Sogavare, che rimane un membro del governo (come ministro delle Finanze). La nomina di Manele è una buona notizia per la Cina, ma forse anche per i paesi occidentali, vista la sua fama di diplomatico ragionevole e moderato. Il commento di Patricia O’Brien sul Diplomat.
Un reportage da Sihanoukville da leggere, di Emanuele Giordana. Poi la Cambogia forse non ha tutti i torti a voler costruire il canale Funan Techo (nonostante i probabili impatti ambientali): l’analista David Hutt ne parla qui.
L’Iran contrabbanda in Pakistan un miliardo di dollari di carburante ogni anno. L’Italia vuole formalizzare un accordo con Islamabad per contrastare l’immigrazione illegale.
Una nuova banconota ha riacceso le dispute di confine tra India e Nepal.
A cura di Francesco Mattogno