Il cessate il fuoco nel nord-est del Myanmar già scricchiola, e nel resto del paese si continua a combattere. Il Laos intanto ha già mandato il suo inviato speciale ASEAN a Nay Pyi Taw. Le polemiche politiche e giudiziarie in Thailandia e Pakistan, le Maldive sempre più lontane dall’India, il tour di Jokowi nel Sud-Est asiatico. Poi Malaysia, Bhutan e Bangladesh. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente
Il 12 gennaio i portavoce della Three Brotherood Alliance (3BHA) hanno annunciato sui propri profili social il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco con il Consiglio di amministrazione dello Stato (SAC), la giunta militare che governa il Myanmar dal colpo di Stato del 1° febbraio 2021. Come confermato anche dal ministero degli Esteri cinese, i colloqui finali per il cessate il fuoco si sono tenuti il 10 e 11 gennaio a Kunming, capoluogo della provincia cinese dello Yunnan, con la mediazione della Repubblica popolare.
La notizia dell’accordo è circolata molto sui media di tutto il mondo. Negli ultimi mesi la 3BHA ha avuto il merito di riportare l’attenzione su un conflitto spesso dimenticato dalla stampa internazionale grazie all’Operazione 1027, l’importante offensiva iniziata lo scorso 27 ottobre nel nord dello Stato Shan dai tre gruppi etnici armati che compongono il blocco: il Ta’ang National Liberation Army (TNLA), l’Arakan Army (AA) e il Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA).
Con il passare delle settimane l’Operazione 1027 – a cui si sono sommate tutta una serie di offensive in altre zone del paese, specialmente negli Stati Karenni e Chin – ha iniziato a rappresentare una seria minaccia per la stabilità del regime del generale Min Aung Hlaing. Secondo quanto riportato dall’Irrawaddy, dal 27 ottobre il SAC ha perso il controllo di 16 città nel nord dello Stato Shan e di altre 14 negli Stati Kachin, Karenni, Chin e nella regione del Sagaing, insieme a centinaia di basi militari e di avamposti dell’esercito, costretto alla ritirata. Molte di queste città si trovano vicino al confine con lo Yunnan e rivestono il ruolo di importanti centri per il commercio transfrontaliero con la Cina.
L’ultima grande vittoria in ordine di tempo della 3BHA è arrivata lo scorso 5 gennaio con la conquista di Laukkai, capoluogo della regione del Kokang, dove la giunta ha perso il più grande centro di comando dell’esercito in questi quasi tre anni di guerra civile, cedendo ai ribelli significative riserve di armi, munizioni e veicoli militari. Si parla di più di 2000 soldati che si sono arresi senza combattere, insieme a decine di ufficiali e a 6 brigadier generali. Una disfatta (l’ennesima) che, sommata a una situazione economica disastrosa, ha portato anche alcuni dei più vocali sostenitori del regime a chiedere le dimissioni di Min Aung Hlaing.
Per questo probabilmente il raggiungimento di un cessate il fuoco, arrivato dopo altri due tentativi andati a vuoto a dicembre, non è stato accolto proprio positivamente sul canale Telegram dell’alleanza.
Già dalla sera del 12 gennaio, però, il TNLA ha iniziato a denunciare varie violazioni del cessate il fuoco da parte della giunta. L’accordo prevedeva uno stop alle offensive della 3BHA in cambio dell’interruzione dei bombardamenti da parte del SAC, che secondo il TNLA in questi giorni avrebbe invece attaccato diverse cittadine nel nord dello Stato Shan.
Che regga o meno, il cessate il fuoco riguarda solo le operazioni della 3BHA. Dopo due mesi di battaglie, il 14 gennaio l’AA ha annunciato di aver conquistato il distretto di Paletwa, nel sud dello Stato Chin, mentre proseguono i combattimenti del gruppo nel Rakhine. Il 12 gennaio inoltre le forze di resistenza Karenni hanno preso il controllo della maggior parte di Pekon, circoscrizione nel sud dello Stato Shan. Dallo scorso 11 novembre, con l’inizio dell’Operazione 1111, i ribelli Karenni hanno conquistato l’80% dello Stato Karenni (Kayah), scrive l’Irrawaddy. Insomma: i combattimenti continuano. Dal colpo di Stato il numero degli sfollati ha superato i 2 milioni, mentre sono più di 4.000 i civili uccisi dagli attacchi dell’esercito.
ASEAN – IL LAOS NOMINA L’INVIATO SPECIALE PER IL MYANMAR
A proposito di guerra civile birmana, il Laos (a cui spetta la presidenza 2024 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, ASEAN) ha nominato il suo inviato speciale per il Myanmar. Si tratta di Alounkeo Kittikhoun, già ministro dell’ufficio del premier laotiano e inviato di Vientiane alle Nazioni Unite. Nonostante in questi anni ai rappresentanti del SAC sia stato impedito di partecipare agli incontri dell’ASEAN, il blocco rimane in contatto con la giunta militare birmana tramite l’ufficio dell’inviato speciale, figura creata per spingere il regime ad attuare il Consenso in 5 punti, con il quale ad aprile 2021 l’esercito birmano si era impegnato a cessare le ostilità e a instaurare un dialogo con tutte le parti per riportare la pace nel paese. Un patto che il SAC non ha mai fatto nulla per rispettare, come scrive Sebastian Strangio sul Diplomat.
La nomina di Alounkeo è arrivata con una certa celerità, e secondo il Thai PBS questo potrebbe essere un segno della serietà con la quale il Laos ha intenzione di trattare la questione birmana, che rappresenta probabilmente il dossier più spinoso per l’ASEAN da tre anni a questa parte (con cui hanno dovuto fare i conti le presidenze di Brunei, Cambogia e Indonesia). La scorsa settimana Alounkeo si è recato in Myanmar e ha incontrato sia Min Aung Hlaing che gli esponenti di alcuni partiti e gruppi etnici armati vicini al SAC, ma non gli esponenti del governo di unità nazionale (NUG), l’esecutivo “ombra” alleato di diversi gruppi etnici armati che dal 2021 guida la resistenza al colpo di Stato.
Durante l’incontro tra l’inviato ASEAN e Min Aung Hlaing la giunta ha ribadito i suoi “sforzi per garantire pace e stabilità al paese” e “l’impegno per rafforzare il sistema democratico multipartitico”, ha scritto il Global New Light of Myanmar, quotidiano di propaganda dell’esercito birmano.
THAILANDIA – POLEMICHE SUL TRATTAMENTO DI FAVORE RISERVATO A THAKSIN
La scorsa settimana in Thailandia si è tornati a parlare molto di Thaksin Shinawatra, fondatore del Pheu Thai, il partito a capo dell’attuale coalizione di governo. Dopo un esilio auto-imposto durato 16 anni, l’ex primo ministro è rientrato nel paese il 22 agosto 2023 a seguito di un probabile accordo con l’establishment militare. Condannato per corruzione a 8 anni di carcere (con accuse che ha sempre detto essere motivate politicamente), a settembre Thaksin ha visto la sua pena commutata a un solo anno e finora non ha passato neanche una notte in cella. Fin dal suo ritorno l’ex premier si trova infatti all’ospedale della polizia Maha Bhumibol Rachanusorn di Bangkok, nel quale è ricoverato per presunti problemi di salute.
Il 12 gennaio alcuni rappresentanti della commissione parlamentare per gli affari di polizia, guidata dal deputato del Partito Democratico Chaichana Detdecho, si sono recati all’ospedale per un’ispezione volta a verificare che ci fosse parità di trattamento tra tutti i detenuti. Intervistato al termine della visita, Chaichana ha detto che Thaksin è l’unico detenuto a cui è permesso di restare all’ospedale in pianta stabile (tutti gli altri devono lasciare l’istituto per tornare in carcere al termine delle visite). Nonostante le richieste, inoltre, lo staff dell’ospedale ha impedito alla delegazione di visitare la stanza del fondatore del Pheu Thai, e quindi non è chiaro se Thaksin stia effettivamente scontando la sua pena nell’istituto sanitario. Un’associazione di studenti ha iniziato a raccogliere le firme per chiedere alla corte suprema thailandese di investigare sulla vicenda. Dal 22 febbraio all’ex primo ministro potrebbe essere concessa la libertà vigilata.
Lo scorso 26 dicembre, intanto, l’ex premier Yingluck Shinawatra – sorella di Thaksin – è stata assolta dall’accusa di aver commesso atti illeciti durante il suo mandato (restano in piedi quelle per corruzione). È un altro segno dell’accordo tra Pheu Thai e militari, ha scritto il Thai Enquirer.
Le cose vanno al contrario per il Move Forward, il partito progressista che ha ottenuto il maggior numero di voti alle elezioni di maggio 2023 ma a cui l’establishment ha impedito di formare un governo. A gennaio la corte costituzionale dovrebbe emettere due sentenze attese da tempo. Il 24 gennaio Pita Limjaroenrat, ex leader del Move Forward, potrebbe essere squalificato dal parlamento per aver violato la legge elettorale. Se condannato potrebbe rischiare di andare in carcere e di essere squalificato per anni dalla politica. Il 31 si attende invece la decisione sullo scioglimento o meno del partito, che aveva proposto di depotenziare la legge sulla lesa maestà.
PAKISTAN – IL PTI NON POTRÀ CORRERE ALLE ELEZIONI CON IL SUO SIMBOLO
Il 14 gennaio la corte suprema pakistana ha confermato che il Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI), il partito dell’ex premier Imran Khan, non potrà presentarsi alle elezioni dell’8 febbraio con il suo simbolo, una mazza da cricket. La decisione è dovuta a un tecnicismo che suona come un pretesto: il PTI non avrebbe tenuto elezioni intrapartitiche regolari come previsto dalla legge.
Come riportato da Arab News, la decisione potrebbe avere conseguenze importanti. I candidati del PTI dovranno presentarsi alle elezioni tutti come indipendenti, ognuno con un proprio simbolo elettorale, con possibili confusioni per l’elettorato (solo il 58% del paese è alfabetizzato secondo i dati della Banca Mondiale). Ancora più rilevante, non partecipando alle elezioni come singolo partito al PTI non sarà concessa la quota di seggi riservata alle donne e minoranze etniche, assegnati col metodo proporzionale. Proprio pochi giorni prima dalla sentenza si sono dimessi due giudici della corte suprema, considerati ostili all’establishment militare. Khan è in guerra aperta contro l’esercito dal giorno in cui è stato sfiduciato da premier, ad aprile 2022, e da agosto si trova in carcere accusato di diversi reati.
Anche il leader del Partito Popolare Pakistano (PPP), Bilawal Bhutto-Zardari, ha detto che ormai la competizione elettorale sarà tra il suo partito e la Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N), considerata la forza politica preferita dall’esercito, che tira le fila della democrazia pakistana (ne abbiamo parlato nell’ultimo e-book di China Files: clicca qui per sapere come ottenerlo).
MALDIVE – IL PRESIDENTE MUIZZU CHIEDE ALL’INDIA DI RITIRARE LE TRUPPE
Il presidente maldiviano Mohamed Muizzu ha dato all’India due mesi di tempo per ritirare tutte le sue truppe dalle Maldive, riporta Agence France Presse. Al momento 89 membri delle forze armate indiane (compreso il personale medico) sono dispiegati nel paese per svolgere pattugliamenti aerei nel territorio marittimo dell’arcipelago. Muizzu tiene così fede sulla carta alle sue promesse elettorali, che prevedevano di fatto l’allontanamento di Malé dall’India per mantenere un approccio equidistante tra Nuova Delhi e Pechino. Il presidente maldiviano è tornato nel paese il 13 gennaio a seguito di una visita di tre giorni proprio in Cina (qui il comunicato congiunto).
L’anno era inoltre iniziato con una grande polemica per i commenti di tre viceministri maldiviani – poi sospesi – che il 6 gennaio avevano dato al presidente indiano Narendra Modi del “pagliaccio” e “terrorista” su X a seguito della sua promozione delle Laccadive, arcipelago indiano nel Mar Arabico che viene considerato un potenziale concorrente per il turismo nelle Maldive.
INDONESIA – IL TOUR DI JOKOWI NEL SUD-EST ASIATICO
A un mese dalle elezioni in programma il 14 febbraio, la scorsa settimana il presidente indonesiano Joko Widodo ha viaggiato nel Sud-Est asiatico nel tentativo di garantire anche per il futuro una certa continuità alla politica estera di Giacarta con i paesi della regione. Jokowi è stato nelle Filippine, in Vietnam e in Brunei. Oltre a impegnarsi per rafforzare la cooperazione bilaterale (anche in termini di sicurezza) con Manila e Hanoi, in Brunei il presidente uscente ha cercato di attrarre nuovi investimenti per finanziare la costruzione della nuova capitale nel Borneo, Nusantara.
Domenica 21, intanto, si terrà il quarto dibattito tra i candidati presidenti e vicepresidenti. L’ultimo non era andato troppo bene per il favorito di queste elezioni, Prabowo Subianto.
MALAYSIA – ACCORDO CON SINGAPORE PER RENDERE JOHOR UNA ZONA ECONOMICA SPECIALE
L’11 gennaio la Malaysia e Singapore hanno firmato un memorandum of understanding per stabilire una Zona Economica Speciale tra lo stato malaysiano di Johor e la città-stato, due aree economicamente interdipendenti. Di fatto, merci e persone potranno passare il confine senza bisogno di documenti, presentando un semplice QR Code. Qui il ministro dell’economia malaysiano Rafizi Ramli spiega al Nikkei perché secondo il governo questo favorirà la crescita economica del paese.
BHUTAN E BANGLADESH – ALCUNE ANALISI POST-VOTO
Lo scorso 9 gennaio si sono tenute le elezioni in Bhutan, vinte dall’opposizione. Ad aver ottenuto la maggioranza è stato il Partito democratico popolare (PDP) di Tshering Tobgay, già primo ministro dal 2013 al 2018. Un’analisi di Michael Kugelman di Foreign Policy sul voto. Qui invece un’intervista video di Shannon Tiezzi a Temzing Lamsang del The Bhutanese sulle prospettive post-elezioni per il paese.
Il 7 gennaio si è votato anche in Bangladesh, dove la prima ministra Sheikh Hasina della Lega Awami si è assicurata un quarto mandato consecutivo da premier a seguito di elezioni boicottate dal principale partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party (BNP). L’affluenza è stata bassa (probabilmente sotto il dato ufficiale del 40%) e non ci sono state le condizioni per una competizione elettorale libera ed equa. Il commento di Deutsche Welle e del Diplomat.
A cura di Francesco Mattogno