Tutte le volte che Adil esce di casa ogni cento metri trova ad attenderlo un posto di blocco attrezzato di scanner dell’iride e del corpo. Quando entra in banca telecamere per il riconoscimento facciale ne verificano in pochi secondi l’identità e se naviga su smartphone un apposito software ne traccia i movimenti online. Anche per il semplice acquisto di un coltello da cucina è costretto al rilascio del numero ID tramite QR code, il codice a barre bidimensionale con cui in Cina ormai ci si fa di tutto, dai pagamenti digitali allo scambio di amicizia su WeChat.
Adil non esiste, ma la sua distopica quotidianità è già realtà per molti uiguri, l’etnia turcofona di religione islamica che vive nella regione autonoma del Xinjiang. E’ qui, nell’estremo Ovest cinese, che Pechino applica i progressi compiuti nell’industria 4.0 alle più sofisticate tecniche di sorveglianza con l’obiettivo di debellare “i tre mali” (estremismo, terrorismo e separatismo). Dalla scorsa estate un “Programma di registrazione popolare” impone la raccolta delle informazioni biometriche (compresi impronte digitali e DNA) per qualsiasi operazione che coinvolga l’hukou, il permesso di residenza necessario all’iscrizione in una scuola pubblica o all’ottenimento del passaporto. Il passo successivo è quello, un giorno non troppo lontano, di integrare il bagaglio di dati personali al capillare sistema di videosorveglianza che già conta 176 milioni di telecamere in tutto il paese e aspira ad aggiungerne altri 500 milioni entro il 2020. Un traguardo non impossibile se si considera che in alcune stazioni ferroviarie la polizia già pattuglia in via sperimentale con occhiali per il riconoscimento facciale capaci di smascherare i viaggiatori in possesso di documenti falsi in soli 100 millisecondi.
Secondo la data company IHS Markit, con 6,4 miliardi di fatturato tra hardware e software, la Cina è già il primo mercato al mondo per la sorveglianza. Il termine “leninismo digitale” esprime al meglio le implicazioni securitarie della rinascita tecnologica avviata dal gigante asiatico. Ma si tratta tuttavia di una dicitura parziale che rischia di sminuire la versatilità del progetto. Tornando al Xinjiang, lo scopo conclamato del programma di registrazione è infatti quello di adottare un “processo decisionale scientifico” per promuovere “la riduzione della povertà”, “una governance sociale più sistematica e innovativa” e — in ultimo — la “stabilità sociale”.
Negli stessi giorni in cui la prefettura di Aksu riceveva le nuove linee guida, il Consiglio di Stato varava un piano strategico volto a rendere la Cina il centro globale dell’intelligenza artificiale entro il 2030. Allora il mercato interno dovrebbe raggiungere un valore di 1 trilione di yuan (148 miliardi di dollari). Il programma, articolato in tre fasi quinquennali, ha lo scopo di avviare una “quarta rivoluzione industriale” in grado di rilanciare la crescita nazionale. Se le proiezioni di PwC dovessero rivelarsi esatte, entro il 2030, l’intelligenza artificiale avrà regalato alla seconda economia mondiale un’espansione del 26%. Giusto quel che ci vuole per ricalibrare il vecchio modello di crescita basato sul binomio export-investimenti.
Che la Cina faccia sul serio lo dimostra la portata dell’impegno economico: 16 miliardi di dollari soltanto per un fondo interamente dedicato alle tecnologie di nuova generazione nella città portuale di Tianjin. Come sempre, la ricerca fa da apripista. Dal 2015, il gigante asiatico realizza almeno un 50% in più di studi sull’AI rispetto agli Stati Uniti. Recenti corsi di formazione a guida statale puntano a colmare un deficit del personale specializzato aggiungendo 500 insegnanti e 5000 studenti universitari, mentre il coding e l’AI finiscono persino sui banchi delle scuole primarie e secondarie. A oggi, l’intelligenza artificiale viene già adottata in campo militare (spesso occultata dietro la più rassicurante dicitura “dual-use”), per la fabbricazione di autovetture autonome, la gestione del traffico così come nella conversione delle “smart city” e nella sanità, dove trova impiego nelle pre-diagnosi, scansioni TC, organizzazione delle cartelle cliniche e nel trasporto degli strumenti in sala operatoria. Declinata in maniera più creativa, serve a testare la lealtà dei funzionari con programmi di realtà virtuali; combattere gli sprechi centellinando la carta igienica nei bagni grazie al riconoscimento facciale; monitorare il grado di attenzione degli studenti in classe attraverso l’espressione del viso; migliorare il rendimento dei lavoratori per mezzo dispositivi wireless in caschi e berretti capaci di controllare costantemente le onde cerebrali di chi li indossa. Secondo il Financial Times, ormai il 10% dei contenuti caricati su iQiyi, il Netflix cinese, viene rimosso in automatico dagli algoritmi senza bisogno dell’intervento di censori in carne ed ossa.
Tutto questo è reso possibile dalla gigantesca mole di dati generata dagli oltre 770 milioni di netizen e dal crescente controllo dello Stato sulle informazioni grazie alla controversa partnership con i colossi dell’hi-tech. Per Feng Xiang, docente di legge presso la Tsinghua University, il coinvolgimento del governo è necessario per impedire che la nascita di un “capitalismo digitale” — dominato da un “oligopolio di supericchi” — sfoci in automazione selvaggia e conseguenti licenziamenti di massa. L’altra faccia della medaglia, tuttavia, è il controllo orwelliano dello spazio on e offline. Di pochi giorni fa la notizia della partecipazione di Huawei nell’apertura di un laboratorio per la “digitalizzazione della sicurezza pubblica” ad Urumqi, capoluogo del Xinjiang.
C’è chi considera la regione autonoma laboratorio per la formulazione di politiche in futuro estendibili al resto del paese. Di più. Sfruttando la Belt and Road, la cintura economica tra Asia, Europa ed Africa, il “modello Xinjiang” rischia — nel bene e nel male — di farsi strada oltreconfine attraverso la cosiddetta nuova via della seta. Ad aprile, Cloudwalk, società con sede nel Guangdong, ha siglato un’intesa con il governo dello Zimbabwe per la realizzazione di un progetto di “sorveglianza intelligente”, noto come “Eagle Eye”, debutto ufficiale dell’AI “made in China” nel continente africano. Come scrive il giornalista zimbabwiano Farai Mudzingwa, “come sempre, quando viene introdotto uno strumento di sorveglianza, dobbiamo chiederci se questo possa essere usato per scopi malvagi. In un paese come il nostro, dove nel corso degli anni si sono verificate molteplici violazioni dei diritti umani, temo sinceramente che la tecnologia non venga effettivamente utilizzata per introdurre un miglioramento”.
[Pubblicato su il manifesto]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.