Ogni anno il sito web cinese di architettura archcy.com stila una classifica dei dieci progetti architettonici più antiestetici e bizzarri del paese. Se l’intento degli organizzatori è quello di proporre una riflessione sui concetti di “bello” e “brutto”, l’edificazione delle strutture “strane e sovradimensionate” è diventato un problema di una certa rilevanza in Cina. “la yanjing 辣眼睛” è una nuova mini-rubrica di China-Files, alla scoperta degli edifici che sono un pugno in un occhio.
Ponti antropomorfi, utilizzo smisurato dei colori, dimensioni eccessive, messaggi ambigui. In Cina da tempo si discute dell’impatto economico e reputazionale – e, com’è ovvio, anche dal punto di vista estetico – di progetti architettonici “sgradevoli”, soprattutto di quelli a uso pubblico. Nel 2014 Xi Jinping aveva espressamente chiesto di reprimere la costruzione di “edifici strani” (qiguai qiguai de jianzhu 奇奇怪怪的建筑), soprattutto nella capitale, precisando che l’arte deve “incarnare la cultura tradizionale cinese e riflettere la ricerca estetica del popolo cinese” e che “le opere d’arte dovrebbero fungere da ispirazione come il sole nel cielo e la brezza di primavera”.
Molti si erano chiesti se il segretario generale volesse riferirsi alla sede della China Central Television (Zhongyang dianshi tai zongbu dalou 中央电视台总部大楼) completata nel 2008 e progettata da due architetti affiliati allo studio olandese OMA (Office for Metropolitan Architecture). Sin dal principio, la forma di ispirazione cubista composta da due L rovesciate non aveva fatto impazzire l’opinione pubblica, e la malcapitata struttura si era aggiudicata dai pechinesi il nomignolo di “mutandoni”, da kucha 大裤衩.
Ma Pechino vanta altri esempi di edifici rilevanti a livello governativo e poco apprezzati dalla collettività. Inaugurato nel 2015, il nuovo quartiere generale del Quotidiano del Popolo (Renmin ribaoshe zongbu dalu 人民日报社总部大楼) ha il pregio di esser stato progettato dalla intera facoltà di Architettura della Southeast University di Nanchino. Sfortuna ha voluto, tuttavia, che coperto dalle impalcature assumesse sembianze falliche, e le foto, inutile dirlo, avevano fatto il giro del web. Malgrado ciò, il progetto a forma triangolare – a ispirare il carattere ren 人, “persona” – si era aggiudicato l’anno seguente l’A’Design Award, la competizione di design più grande al mondo.
Che ricordino genitali giganti o che provino a celebrare la pregiata seta cinese (avete visto il Sunac Guangzhou Gran Theatre a Guangzhou?), quest’anno il partito si è scagliato con più fermezza contro le strutture “strane”. Ad aprile la Commissione nazionale per lo Sviluppo e la Riforma (NDRC) è intervenuta lanciando una serie di misure che vietano la costruzione di “progetti architettonici brutti” e di edifici superiori a 500 metri – la Cina è il paese con il maggior numero di grattacieli al mondo, con 2.395 edifici che superano i 150 metri – e mettendo così un freno all’ostentazione e all’esibizionismo tipici dei governi locali. E, molto importante, agli edifici che emulano icone occidentali.
Sì, perché c’è un fenomeno piuttosto diffuso che si traduce in repliche di piccoli scorci d’Europa e che ha prodotto, ad esempio, una copia esatta di 108 metri della Torre Eiffel. Si trova a Hangzhou, anzi, più precisamente a Tinducheng, complesso residenziale della periferia della città. Il quartiere, costruito nel 2007 e per anni quasi del tutto disabitato, ad oggi ospita circa 30 mila persone e si presenta a tutti gli effetti come una Parigi cinese, con gli Champs Élysées a grandezza naturale, la Monna lisa, le fontane di Versailles e tutto il resto. Chissà se l’intento sia stato quello di porre rimedio alla famosa sindrome di Parigi, la sensazione di delusione che attanaglia alcuni turisti, specialmente asiatici, che si genera dalla scoperta che la realtà della metropoli non rispetta la loro visione idealizzata.
Ma la questione dell’influenza occidentale si lega anche a un discorso che negli ultimi anni ha preso piede sul web e che riguarda i numerosi edifici sul suolo cinese progettati da studi architettonici occidentali. “La Cina non è il campo di prova degli stranieri!”, aveva tuonato un utente sul web in riferimento al teatro di Guangzhou, ideato da uno studio londinese, dopo che la complessa struttura, nata con l’intenzione di celebrare la seta cinese, lo scorso anno si era aggiudicata il primo posto della nota classifica annuale pubblicata dal sito web cinese architettura archcy.com, proprio dedicata agli edifici che sono “un pugno in un occhio”, la yanjing 辣眼睛.
Con l’intenzione di sottolineare la necessità di costruire edifici che siano “appropriati, economici, green e piacevoli alla vista”, lo scorso 3 settembre sono state emesse nuove direttive per porre un freno a quell’edilizia sfrenata che minaccia le zone di interesse storico. Pubblicate dal Comitato Centrale di Partito e dal Consiglio di Stato, le “Linee guida sul rafforzamento della protezione e dell’eredità della storia e della cultura nell’edilizia urbana e rurale” introducono per la prima volta una serie di iniziative strutturate su più livelli volte a proteggere il patrimonio culturale, mappando le aree archeologiche e prevenendo la demolizione di edifici antichi e l’urbanizzazione incontrollata. Tra i siti protetti figurano ad oggi 6.819 villaggi e 42.700 edifici storici.
Una presa di posizione legata al fatto che Xi Jinping “ha da sempre attribuito grande importanza alla protezione del patrimonio storico e culturale nelle aree urbane e rurali”, ha detto durante una conferenza stampa a inizio settembre Huang Yan, vice-ministra dell’edilizia residenziale e dello sviluppo urbano-rurale. Nei numerosi viaggi governativi per ispezionare lo stato attuale della conservazione architettonica, ha riportato la vice-ministra Huang, Xi avrebbe sottolineato l’importanza di trattare “i vecchi edifici della città con gentilezza, nello stesso modo in cui si trattano gli anziani”.
Di Vittoria Mazzieri
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.