La Thailandia è diventata il primo paese asiatico a depenalizzare la cannabis. I commercianti si sfregano le mani, l’opinione pubblica è spaccata, gli esperti avanzano qualche perplessità.
Per chi è cresciuto negli anni ‘90 la Thailandia è soprattutto i film cult “The Beach” e “Bangkok senza ritorno”: è paesaggi tropicali, i rave sulla spiaggia, e la lotta al narcotraffico. Per circa trent’anni, la Thailandia è stata uno dei paesi più severi nei confronti del commercio di stupefacenti. Tanto che nella prigione di massima sicurezza di Bangkok, Klong Prem, nel 2018 il 64% dei detenuti aveva alle spalle arresti per droga. Proprio il sovraffollamento delle carceri negli ultimi tempi ha spinto il governo thailandese ad adottare un approccio più tollerante nei confronti delle droghe leggere. Anche a sfruttarne alcuni vantaggi economici.
Una svolta in tal senso è arrivata giovedì 9 giugno, quando il “Paese dei sorrisi” è diventato la prima nazione asiatica a depenalizzare la marijuana. Secondo le nuove direttive, i privati potranno coltivare fino a sei piante di cannabis in casa, previa registrazione presso le autorità. Verrà tollerato (persino incoraggiato) un uso più diffuso della marijuana in medicinali, cosmetici e alimenti, purché il principio attivo THC responsabile del suo effetto stupefacente non superi lo 0,2%. Resta invece illegale il consumo ricreativo, sebbene l’allenamento – si vocifera – potrebbe in futuro diventare totale in alcune zone, come le isole di Phuket e Koh Samui, dove legalizzare completamente l’industria aiuterebbe a rilanciare il turismo.
I commercianti si sfregano le mani, l’opinione pubblica è spaccata, gli esperti avanzano qualche perplessità. Ma nella confusione generale i numeri attestano già un notevole entusiasmo. Solo giovedì più di 150.000 potenziali coltivatori si sono registrati sull’apposito sito web, costringendo la Thai Food and Drug Administration a apprestare una piattaforma alternativa per far fronte alla massiccia richiesta.
Il processo di deregolamentazione è avvenuto gradualmente. Nel 2018, la Thailandia era stato il primo paese asiatico a permettere l’uso terapeutico della cannabis. Poi l’anno scorso è scattato il semaforo verde per l’impiego della sostanza come additivo per cibi e bevande. Improvvisamente canapa e marjuana sono spuntate un po’ ovunque: dai più popolari piatti thai fino al pane, la pizza e i biscotti. Sempre nel 2021, per valutare l’impatto sociale, era stato legalizzato il kratom, una pianta psicoattiva originaria del Sudest asiatico meno potente della marijuana.
Dietro la deregulation c’è il partito Bhumjaithai, la seconda forza politica della coalizione di governo, il cui leader, Anutin Charnvirakul, è riuscito mantenere l’incarico di ministro della Sanità grazie al supporto del generale Prayuth Chan-ocha, nonostante la criticata gestione del Covid-19. Ai microfoni della CNN Anutin ha smentito l’intenzione di legalizzare il consumo ricreativo. Ma ha affermato che “con la tecnologia e le strategie di marketing odierne, la Thailandia non sarà seconda a nessuno nel promuovere i prodotti [a base di cannabis] nel mercato globale”.
Come altrove, anche nel “Paese dei sorrisi”, la liberalizzazione della cannabis ha infatti soprattutto finalità economiche. Secondo la Thai Industrial Hemp Trade Association, il valore del mercato nazionale della marijuana si aggira intorno ai 40 miliardi di baht (oltre 1 miliardo di euro) e dovrebbe toccare i 70 miliardi entro il 2024. Non male per un paese ancora fortemente dipendente dal turismo. Il ministero dell’Agricoltura thailandese ha annunciato che distribuirà 1 milione di piante di marijuana per favorire la lucrosa produzione nelle zone rurali del paese, quelle più arretrate.
Non tutti condividono l’ottimismo di Anutin. Il timore è duplice. Da una parte, c’è chi sospetta che un accesso facilitato alla cannabis crei dipendenza tra i giovani. Su Facebook il gruppo Ganjiachon, (il popolo della Cannabis) – che riunisce fumatori e fan della marijuana – conta già oltre 460.000 follower. Dall’altra, in mancanza di un quadro normativo organico, si teme diventerà più facile oltrepassare la sottile linea rossa della legalità: per chi consuma l’erba per scopi ricreativi sono ancora previste sanzioni amministrative fino a 25.000 baht e una pena massima di tre mesi di carcere.
A ciò si aggiungono le polemiche per la scarcerazione di oltre 3000 detenuti per reati legati alle droghe leggere. Il ritorno in libertà dei galeotti, annunciato venerdì, ha sollevato un vespaio. Come spiega al Nikkei Asia Review un ventottenne, un conto è liberalizzare l’impiego della cannabis per uso medico, un altro è riabilitare dei “criminali” potenzialmente predisposti a commettere nuovi reati.
Per quanto controversa, l’apertura della Thailandia rispecchia un trend generalizzato in Asia, dove la pianta è sempre stata utilizzata come rimedio naturale contro vari disturbi fisici. Lo scorso aprile la Malesia ha ventilato la possibilità di legalizzare la marjuana per fini medici, mentre il 10 giugno il governo di Ismail Sabri Yaakob, annunciando la sospensione della pena di morte obbligatoria, ha dichiarato verranno prese in esame sentenze alternative per 11 reati. Traffico di stupefacenti incluso. Lo Sri Lanka, scosso da una delle peggiori crisi economiche di sempre, ha promesso a novembre di introdurre leggi ad hoc per supportare l’export di medicinali a base di cannabis.
Persino in Cina, dove la leadership di Xi Jinping è impegnata in un’agguerrita campagna moralizzatrice, lo scorso anno lo Yunnan è diventato la prima provincia del paese a depenalizzare la coltivazione per uso terapeutico della cannabis sativa, varietà con un basso contenuto di THC. Stando ai dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica, la Repubblica popolare conta per quasi la metà delle piantagioni di canapa destinate legalmente a uso commerciale a livello globale. Nello Heilongjiang, nell’estremo Nord-est cinese, da anni il governo sostiene la produzione della cannabis sativa nel settore tessile. Una pratica antica che, secondo i ricercatori, era già diffusa in Cina durante la dinastia Shang. Ovvero 3400 anni fa.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.