Il leader cinese compie 70 anni, quando è iniziato il terzo atto del suo ambizioso mandato. Per lui, la Cina è più della Repubblica popolare. E mentre riceve il palestinese Abbas e Blinken si appresta a recarsi a Pechino, Xi sistematizza la sua concezione olistica di cultura, sicurezza e politica estera. Sullo sfondo qualche incognita
Alla soglia dei 60 anni, era conosciuto soprattutto come il “marito di Peng Liyuan”. Oggi, al compimento dei 70 anni, Xi Jinping continua a essere sposato con la celebre soprano, ma è anche considerato il leader più potente al mondo. Alla vigilia del suo compleanno, si è “regalato” un incontro con il presidente dell’autorità palestinese, Mahmud Abbas. Presentando anche una proposta in tre punti per la soluzione dell’atavica questione tra Israele e Palestina, appoggiando la creazione del secondo stato. Nei prossimi giorni, riceverà invece Bill Gates. E forse Antony Blinken, anche se l’incontro col segretario di stato americano (a Pechino il 18 e 19 giugno) non è scontato, vista anche la tesa telefonata di ieri col ministro degli Esteri Qin Gang.
Un’agenda che dice già molto del momento di Xi, ma forse non quanto il suo discorso di qualche giorno fa a un simposio culturale: “La civiltà cinese è l’unica ininterrotta al mondo”, ha detto il segretario generale del Partito comunista. “Sarebbe impossibile capire la Cina antica, o quella moderna, per non parlare di quella futura, se non si comprende la continuità della sua lunga storia”. E ancora: “Tale continuità dimostra che il popolo cinese deve seguire la propria strada”.
Un sintetico manifesto della concezione di Xi, profondamente evoluta rispetto a quella del leader che domina i suoi primi 22 anni di vita, Mao Zedong. Nella visione olistica di Xi, il marxismo si accompagna alle antiche tradizioni cinesi, tra cui il confucianesimo. Non è certo un caso che tra le sue prime visite da presidente ci sia quella di Qufu, la città dello Shandong in cui nacque Confucio. Pochi mesi dopo, Xi diventa il primo leader a intervenire durante un forum internazionale sul filosofo: “La cultura è l’anima della nazione”, dice in quella sede. Le frequenti citazioni di classici o l’insistenza sulla civiltà millenaria non servono solo a solleticare un nazionalismo che nell’ultimo decennio ha conquistato sempre più spazio, ma anche a proporre un modello e una visione di mondo alternativa a quella di un occidente che (citando il discorso di Xi durante le recenti “due sessioni” di marzo) “sta attuando contro di noi un contenimento, un accerchiamento e una soppressione a tutto campo, ponendo sfide di una gravità senza precedenti allo sviluppo del nostro paese”. Per Xi, la Cina è più della Repubblica popolare.
Chi lo immaginava come una figura grigia o poco incisiva come spesso è stato descritto il predecessore Hu Jintao, si è dovuto in fretta ricredere. Pochi mesi dopo quel 16 novembre 2012 in cui assume la carica di segretario generale, Xi lancia la Belt and Road Initiative, le nuove Vie della Seta che completano il ritorno di Pechino sulla scena globale. Un processo avviato da Deng Xiaoping e puntellato da Jiang Zemin, tra grandi riforme economiche e ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. Spesso descritto come figura di rottura autoritaria, Xi è in realtà colui che ha portato avanti e sta completando l’ingresso della Cina nella cosiddetta “nuova era”. Un’era in cui le “opportunità strategiche” profetizzate da Jiang Zemin hanno lasciato il posto a “sfide senza precedenti” e “acque tempestose”. E in cui Xi incarna il saldo timoniere voluto dalla maggioranza del partito, ormai rimodellato a sua immagine e somiglianza con l’avvio del suo terzo storico mandato ottenuto al XX Congresso dello scorso ottobre. Un partito tornato a popolarsi di tecnocrati, mentre le storiche fazioni venivano diluite in una prospettiva che è olistica anche sulla sicurezza nazionale, ombrello sempre più vasto in cui vengono fatti rientrare tutti gli aspetti della vita del paese. O pardon, della civiltà. Sì, perché per Xi la Cina è più della Repubblica popolare. È una civilizzazione in grado di essere il punto di riferimento principale per il cosiddetto sud globale, uditorio principe per cui negli scorsi mesi alla strategia strategico-commerciale rappresentato dalla Belt and Road si è aggiunta quella politico-retorica della Global Security Initiative e della Global Civilization Initiative. Sicurezza e civilizzazione. Per ribadire al rivale americano che il modello di sviluppo cinese è irriducibile, non assimilabile ed esige un “rispetto reciproco”. E per mostrarsi sulla scena internazionale come potenza responsabile e garante di stabilità. Non solo economica, attraverso gli investimenti, ma anche politica.
Ed ecco le iniziative su Ucraina e Palestina. Anche se le percentuali di successo, così come dell’esistenza di proposte concrete da parte cinese, sono minime. Poco importa. Quello che conta è mostrare al mondo che ci si sta provando. Indicando negli Stati uniti l’agente di instabilità che non consente di raggiungere soluzioni politiche alle crisi, istigate dalla “mentalità da guerra fredda” e dall'”arroganza” di chi ha preteso che il suo modello fosse quello a cui tutti avrebbero dovuto adeguarsi.
In questi giorni, Pechino e Washington provano a far ripartire il dialogo. Ma basta leggere gli ultimi discorsi di Xi per capire che la Cina ha una visione quasi fatalista dei rapporti bilaterali. Più che un disgelo, l’obiettivo diventa allora la stabilizzazione del disaccordo. Sul fronte interno, Xi ha cementato la presa sul Partito e ha operato una stretta su qualsiasi forma di associazionismo, operando una sinizzazione culturale ad ampio spettro che ha coinvolto anche il fronte religioso e quello dell’intrattenimento. Ha però anche delle incognite da affrontare. A partire dalla disoccupazione giovanile, che è arrivata a superare il 20 per cento: quasi il doppio dei livelli pre Covid. Da quando è al potere, Xi è spesso riuscito a interpretare alcuni sentimenti del cinese medio intercettandone e incalandone il malcontento, per esempio nella campagna di rettificazione dei grandi colossi privati. Dopo la pandemia e la movimentata fine della strategia zero Covid, non è scontato riesca a continuare a farlo con una generazione che per la prima volta dopo qualche decennio guarda al futuro con qualche preoccupazione.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.