Con questo articolo di Michelangelo Cerracchio iniziamo a pubblicare dei contributi curati da SIR – Students for International Relations dell’Università degli Studi di Milano.
“L’acqua è fonte di vita e gli alberi sono la fonte dell’acqua”. Con questo antico detto mongolo il presidente Khürelsükh Ukhnaa si è rivolto alla plenaria della COP26 prima di esprimere il suo assenso sui progetti di riforestazione portati avanti il mese scorso a Glasgow. Nello stesso discorso, il presidente ha ripetuto l’importanza degli impegni presi per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Assieme allo sfruttamento di energia eolica e solare offerta dal deserto del Gobi, l’obiettivo più concreto è stato posto dalla riduzione del 22-27 percento delle emissioni di gas serra entro il 2030, grazie ad un ampio processo di riforestazione e ad un adeguato piano di investimenti, magari corroborato da aiuti esteri non soltanto in campo tecnologico ed energetico, ma anche in quello infrastrutturale e finanziario.
Sarebbe un errore, però, considerare questi come impegni volti esclusivamente al benessere dell’umanità senza alcun tornaconto strategico. Piuttosto, sono lo specchio della cultura mongola e della declinazione della strategia del paese, rivolta ad accrescere il prestigio a livello internazionale per essere riconosciuto come eccezione democratica nell’Asia centrorientale con l’obiettivo di resistere alle pressioni russe e, soprattutto, cinesi.
L’intensificazione recente dei rapporti diplomatici soprattutto con Russia e India aiuta a comprendere meglio le parole del presidente al summit di Glasgow, che rispecchiano la dimensione dell’azione strategica della Mongolia sullo scacchiere internazionale. In seguito al riallineamento sino-sovietico annunciato da Breznev nel 1984, Ulaanbaatar ha fatto del riconoscimento internazionale in stricto sensu e degli investimenti di capitali esteri nella finanza e nelle infrastrutture i propri cavalli di battaglia per trainare l’economia, tanto da diventare nel 2011 il paese con il più veloce tasso di crescita economica del mondo. Uno sviluppo economico a ritmo sostenuto raggiunto senza compromettere il processo di democratizzazione, modernizzazione e prosperità intrapreso dalla progressiva apertura verso l’occidente fin dagli anni Sessanta e culminato con la rivoluzione democratica pacifica nel 1996.
Da una parte, è vero che le ultime elezioni presidenziali di giugno 2021 hanno visto una rapida verticalizzazione del potere, definita in maniera tutt’altro che democratica da alcuni studiosi e dal Partito Democratico mongolo – che hanno accusato il Partito Popolare di voler instaurare un sistema a partito unico. Nonostante le numerose accuse di corruzione, infatti, il Partito Popolare ha mantenuto la maggioranza al parlamento dal 2016, proponendo nel 2019 un emendamento alla costituzione per limitare a sei anni il termine massimo del mandato del presidente ed escludendo così dalla sua ricandidatura il presidente democratico Battulga. Quindi, dopo la costituzionalità di questo emendamento sancita dalla Corte costituzionale nel 2021, il Partito Popolare lo ha ratificato pochi mesi prima di ottenere una vittoria schiacciante in parlamento, aggiudicandosi sia la carica di primo ministro che quella di presidente.
Assieme alle numerose missioni di peacekeeping e di assistenza umanitaria in seno all’ONU, la modernizzazione del paese ha comunque dato la possibilità alla Mongolia di aumentare il suo prestigio internazionale e di implementare una politica del terzo vicino: una strategia volta ad implementare diverse cooperazioni a geometria variabile con Stati Uniti, Giappone, paesi dell’Unione Europea e della NATO, India, Repubblica di Corea, Turchia e paesi dell’Indo-Pacifico. Soltanto così la Mongolia può permettersi di non dipendere in toto da Russia e Cina, i cui rapporti di buon vicinato sono indispensabili per l’affermazione della propria sovranità, indipendenza e stabilità.
Sia con Mosca che con Pechino, Ulaanbaatar professa l’equidistanza strategica, ma la pratica più recente dimostra un’altra realtà. Forte di vecchi tradimenti costati alla Mongolia la sua indipendenza fino al collasso della dinastia Qing e spaventata dalla crescente assertività cinese del nostro secolo, Ulaanbaatar sa di dover ridurre la dipendenza delle esportazioni minerarie verso la Cina per evitare di subirne gli effetti di una mancata diversificazione o, peggio, di eventuali ricatti. Per questo motivo ha annunciato di voler aumentare i rapporti economici con la Russia per fronteggiare la caduta delle esportazioni nell’ultimo trentennio a fronte di una dipendenza quasi totale in campo energetico. E per questo stesso motivo il paese leader nell’esportazione di rame, oro e, in futuro, anche uranio ha spinto per portare a termine gli incontri reciproci tra autorità mongole e indiane nel quadro di una maggiore cooperazione in campo minerario.
L’equidistanza da Russia e Cina sembra lasciare campo ad una più intensa cooperazione economica e militare con la Russia, come recentemente dimostrato dal conferimento della medaglia dell’amicizia all’ambasciatore russo in Mongolia e dalle visite del Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate russo e della Vice Prima Ministra russa al Presidente mongolo. Inoltre, la partnership strategica con la Russia si è sviluppata anche in ambito nucleare, dopo che diversi studi hanno appurato riserve di uranio sufficienti per l’estrazione, l’esportazione e la produzione di energia nucleare, attirando così l’attrazione di Mosca e della corporazione per l’energia atomica russa, Rosatom.
D’altro canto, l’importanza dell’uranio nello scenario di neutralizzazione climatica a cui aderisce la Mongolia e i forti legami con Pechino in campo minerario potrebbero invogliare il nuovo esecutivo mongolo a spingere verso una cooperazione maggiore. Tuttavia, una potenziale infiltrazione cinese negli affari nucleari domestici mongoli potrebbe allertare ulteriormente Ulaanbaatar alla luce dell’espansione dell’arsenale nucleare cinese vicino al confine mongolo. Diversificare i rapporti internazionali potrebbe diluire il rischio e rendere il paese meno dipendente dal grande vicino.
Di Michelangelo Cerracchio