La storia di L. Un’americana cacciata dal Tibet 1/2

In by Simone

L. è una ragazza statunitense di circa trent’anni. Si è trasferita a Shenzhen a gennaio 2014 per lavorare come insegnante di inglese in una scuola pubblica. Aveva un bell’appartamento. Amava il suo lavoro e aveva un ottimo rapporto con i suoi studenti. A febbraio 2015 L. ha deciso di fare un viaggio in Tibet. Mai si sarebbe aspettata che questa decisione avrebbe di colpo messo fine alla sua nuova vita in Cina.  La sua storia in due puntate.
La Regione Autonoma del Tibet è per molti versi diversa dal resto della Repubblica Popolare. Un normale visto non è sufficiente per visitare il vasto territorio su cui un tempo regnava il Dalai Lama. I turisti stranieri devono richiedere un Permesso di Viaggio per il Tibet (PVT) rilasciato dall’Ufficio del Tibet per il Turismo (UTT). Tale visto può essere ottenuto prenotando un pacchetto di viaggio presso un tour operator autorizzato dal governo. La domanda deve includere una lista dei luoghi che si desidera visitare. Oltre a ciò, non si può viaggiare da soli ma bisogna far parte di un gruppo. Il PVT è valido solo dentro la città di Lhasa, la capitale del Tibet. Per visitare località al di fuori di Lhasa serve un altro documento, il Permesso di Viaggio per Stranieri (PVS), rilasciato dall’Ufficio per la Sicurezza Pubblica (USP). Tale permesso è necessario per recarsi in zone del Tibet ‘non aperte’, come il Monte Everest o il Monastero di Samye. Un terzo tipo di visto, il Permesso per le Aree Militari (PAM), serve per visitare zone a rischio, quali il Monte Kallash e il Lago Rowok.  Queste restrizioni dimostrano quanto politicamente instabile sia il Tibet, e quanto sia difficile per le autorità centrali controllare l’opposizione al partito unico nella regione. Come spiega il sito web Tibettravel.org, “Ogni tanto il Tibet attraversa periodi di tensioni e agitazioni di carattere politico. Quando vi sono importanti eventi politici o segnali che tali eventi siano imminenti, il governo potrebbe non rilasciare Permessi di Viaggio per il Tibet.” Nonostante ciò, il sito sostiene che, in generale, il Tibet è pacifico e le rivolte sono rare. “Tutte le informazioni reperibili su internet o apprese da terzi, anche se esse provengono da agenzie di viaggio, sono da considerarsi voci,” scrive tibetravel.org. “Non credeteci a meno che il governo non rilasci un comunicato ufficiale.

Nel febbraio di quest’anno, L. decise di sfruttare il lungo periodo di vacanze in occasione del Capodanno Cinese per compiere un viaggio in Tibet. Fece domanda presso un’agenzia. Ricevuto il PVT, le venne assegnato un gruppo di viaggio di cui facevano parte un cittadino coreano accompagnato dalla figlia. Il 6 febbraio, L. prese un treno della tratta ferroviaria che porta da Qinghai al Tibet, di recente costruzione. Le infrastrutture che collegano la Regione Autonoma al resto della Cina non sono semplici opere pubbliche, ma progetti di prestigio del governo comunista. L’ex premier cinese Zhu Rongji addirittura definì la linea ferroviaria, inaugurata nel luglio del 2006, un’impresa tecnologica “senza precedenti” nella “Storia dell’umanità”. Il Tibet, caratterizzato da un terreno montuoso, basse temperature, scarsità di ossigeno, altitudini estreme e frequenti terremoti, è da sempre una meta difficile per qualunque viaggiatore. Per secoli, la sua geografia lo rendeva quasi inaccessibile ed impediva la costruzione di grandi opere infrastrutturali. Per tali motivi, il Tibet fu l’ultima provincia ad essere collegata al resto della Cina tramite ferrovia. L’inaugurazione della linea Qinghai-Tibet fu celebrata come un evento di portata storica, un prerequisito essenziale, a detta del governo di Pechino, per la “modernizzazione” del Tibet. Ma non tutti sono d’accordo. Molti credono che la ferrovia non sia che un mezzo per promuovere la “sinizzazione” della regione e lo sfruttamento di risorse naturali quali il rame, il ferro e lo zinco.

Sul treno diretto in Tibet gli altoparlanti diffondevano la propaganda del regime comunista, enumerando impressionanti statistiche riguardanti la linea ferroviaria e definendola un miracolo di ingegneria. A L. quegli annunci sembravano un tentativo da parte del governo di nascondere la verità e negare il fatto che i cinesi han opprimono i tibetani e distruggono la loro cultura. Durante il viaggio, L. mandò alcuni sms ad un amico che, come lei, viveva e lavorava in Cina. Entrambi si misero a criticare il governo di Pechino per il modo in cui tratta il Tibet. Quando il treno arrivò a Lhasa una guida turistica tibetana l’aspettava già alla stazione. La guida parlava inglese ed era gentile, ma L. si rese presto conto che la situazione politica del Tibet era un tema troppo scottante perché ne potesse parlare apertamente con lui. Dopo essere andati ad una stazione di polizia, dove gli stranieri devono registrarsi al loro arrivo in Tibet, i due si recarono all’hotel in cui L. avrebbe trascorso i giorni successivi. Lì le furono presentati gli altri due membri del gruppo di viaggio. I tre turisti, costantemente accompagnati dalla guida, visitarono i luoghi più famosi di Lhasa, fra cui il Palazzo del Potala, il Tempio di Jokhang e via Barkhor. L. era turbata dal modo in cui il governo comunista amministra la città come se fosse un territorio occupato. Soldati e posti di blocco erano onnipresenti. Persino dentro Lhasa vi erano controlli di sicurezza simili a quelli degli aeroporti.  Intorno al centro storico, il governo aveva costruito palazzi moderni indistinguibili da quelli di altre città cinesi, dando a Lhasa un carattere monotono e privo di un’identità propria. Nonostante la versione ufficiale della Storia promossa dal partito comunista, L. notò subito che c’era qualcosa di profondamente strano in Tibet, che esso era governato come uno Stato di polizia in cui i cittadini avevano persino meno libertà che nel resto della Cina.

Benché Pechino sostenga che i tibetani costituiscano più del 90% della popolazione della regione, in realtà le strade della città erano piene di cinesi han. Le autorità non pubblicano statistiche sull’immigrazione di cinesi han in Tibet. Secondo dati risalenti al 2008, la popolazione del Tibet era di 2.84 milioni, di cui 2.5 milioni, o il 95.3%, erano di etnia tibetana. Ma queste informazioni ufficiali non tengono in considerazione il reale numero di cinesi che si sono stabiliti nella regione.  Il governo incoraggia attivamente i cinesi han a trasferirsi in Tibet. Di recente, le autorità hanno iniziato a promuovere i matrimoni interetnici fra i tibetani e gli han, con lo scopo di rafforzane l’‘unità nazionale’. Pechino ha speso ingenti somme di denaro per lo sviluppo economico del Tibet e la sua “apertura” agli investimenti di cinesi han, i quali ormai dominano l’economia della regione. La costruzione della linea Qinghai-Tibet mirava a facilitare il processo di “integrazione” del Tibet, un processo che, secondo molti, rischia di portare all’annientamento della civiltà tibetana. Mentre L. camminava nel centro di Lhasa, il suo amico D. le mandò un sms, chiedendole se il Tibet le piacesse. “Lhasa è meravigliosa, a parte tutti questi cinesi di m***!” gli rispose lei in tono semiserio. “Non dimenticarti che quando vai via puoi sempre fare delle donazioni,” le scrisse D., riferendosi alle ONG che operano in Cina.

La sera dell’8 febbraio L. era nella sua camera d’albergo. Si era sentita poco bene il giorno precedente e voleva riposarsi. Alle 23:30 qualcuno bussò alla porta. Quando aprì, L. si trovò davanti due uomini. Uno di loro era di etnia han, l’altro era tibetano. Le dissero di essere ufficiali di polizia venuti per svolgere un controllo di routine. Il cinese portava occhiali, era magro e aveva i capelli corti. Il tibetano era alto circa 1.80 m, aveva i capelli neri, portava occhiali, ed era di costituzione robusta. Entrambi erano in borghese. Inizialmente i due uomini furono alquanto gentili. Si misero a parlare del più e del meno, dando l’impressione che si trattasse veramente di un semplice controllo. Dopo un po’, però, cominciarono a fare domande più specifiche. L. si rese conto che non le avevano detto tutto. I suoi timori furono confermati da una domanda che i poliziotti le fecero: “Che ne pensi del Tibet?Fu a quel punto che capì di essere nei guai. “E’ bellissimo, mi piace davvero,” rispose in modo vago, sforzandosi di mantenere la calma. I poliziotti divennero più aggressivi “Che ne pensi del Tibet?” ripeterono. “Cerca di essere seria con noi se non vuoi che le cose finiscano male.” Il loro tono era intimidatorio. L. rimase in silenzio, temendo che se avesse parlato troppo avrebbe peggiorato la situazione. “Senti, sappiamo dei messaggi che hai mandato quando eri in treno,” disse il cinese con voce minacciosa. L. fu presa dal panico. “Che messaggi?” disse fingendo di non saperne nulla. “Hai mandato degli sms a D., l’australiano.” Il fatto che i poliziotti fossero persino al corrente della nazionalità del suo amico le fece raggelare il sangue. “Sì, ho mandato degli sms a D.,” ammise.

L. era terrorizzata. Il corpo le tremava e involontariamente si teneva lo stomaco dal nervosismo. L’atteggiamento dei poliziotti era ambiguo. A volte erano gentili, e un momento dopo alzavano la voce e la minacciavano. Il cinese aveva un carattere apertamente ostile e aggressivo, mentre il tibetano era più freddo e manipolatore. Le loro parole, piene di doppi sensi, la facevano rabbrividire. “Sei nervosa?” le chiesero, osservando il suo pallore e i brividi che l’attraversavano. “Sono stata male,” rispose. “Sì, lo sappiamo,” dissero. L. si rese conto che la polizia non aveva solo letto i suoi sms, ma che l’aveva seguita fin dal giorno in cui era arrivata in Tibet. L’interrogatorio durò per tre ore, durante le quali i poliziotti continuarono a farle le stesse domande per metterla alla prova. A volte ripetevano le sue risposte in modo sbagliato per controllare che le sue risposte fossero le stesse. Si trattava di un estenuante gioco psicologico in cui i due uomini cercavano di confonderla, impaurirla, e farle dire cose che l’avrebbero incastrata. Mentre parlava, i poliziotti scrivevano ciò che diceva. Di tanto in tanto, sfogliavano dei documenti che probabilmente contenevano informazioni su L. 
Perché non ti metti a letto?” le chiesero più di una volta. Si trattava di preoccupazione per il suo stato di salute o di una trappola? L. non sapeva se fidarsi. In ogni caso, le sarebbe apparso estremamente strano mettersi a riposare mentre due poliziotti maschi stavano nella sua camera, e per di più durante un interrogatorio.

Il tibetano chiese di vedere il suo cellulare. L’idea non le piaceva affatto, visto che il telefono conteneva i messaggi che aveva mandato a D., ma ovviamente non aveva scelta.  Per sua fortuna, L. aveva comprato il cellulare in Russia, e dato che la tastiera era in cirillico, il tibetano non sapeva usarla. Perciò glielo restituì e le chiese di mostrargli gli sms. Questo le diede l’opportunità di cancellare i messaggi più compromettenti. Davvero il tibetano non sapeva usare il cellulare, oppure voleva darle una mano? L. non lo sapeva, ma era felice di avere avuto abbastanza tempo per eliminare alcune delle “prove” a suo carico. Dopo alcuni minuti il poliziotto, irritato, le disse di ridargli il telefono. Uscì dalla stanza, e L. sentì dei rumori che le fecero pensare che stesse facendo delle fotografie. Rimase sola con il cinese, che iniziò a farle domande sulla sua famiglia. Voleva sapere i nomi dei suoi genitori e che lavoro facessero. L., tentando di spaventarlo, gli disse che suo padre era un ufficiale dell’esercito statunitense. Ci volle poco perché si rendesse conto di aver detto la cosa sbagliata, poiché il poliziotto divenne ancora più sospettoso. Alcuni minuti dopo, il tibetano rientrò in camera. “Visto che sei una donna abbiamo chiesto ad una poliziotta di raggiungerci,” disse. “Sta per arrivare.” L. credeva che la presenza di una donna significasse che l’avrebbero perquisita. Intanto il tibetano aveva stampato gli sms. I due poliziotti la interrogarono su ogni singolo messaggio. In uno di essi, D. aveva scritto, “Un giorno il mondo saprà la ver***lol.” L’autocensura della parola “verità” era intesa come uno scherzo. Nessuno di loro si sarebbe mai aspettato che le autorità cinesi avrebbero davvero letto il messaggio.  “Perché D. ha detto queste cose?” le chiesero. “Tu e il tuo amico avete parlato del Tibet?”. “Sì,” L. ammise.

Hai sentito dire cose negative sul Tibet?”
“Be’, in America e in altri Paesi si sentono cose negative.”
“Che tipo di cose? Chi le dice?”

Ho sentito dire che alcuni anni fa ci sono stati dei problemi, delle tensioni. Ne hanno parlato i notiziari, ci sono libri e film che ne parlano,” disse, ma immediatamente si rese conto di essere stata incauta. “Ma so che i media tendono ad esagerare per guadagnare soldi, per rendere le notizie più interessanti,” aggiunse, sperando che questo fosse ciò che i poliziotti volessero sentirsi dire. Ed in effetti, entrambi annuirono con soddisfazione.
Perché hai detto queste cose a D.? Perché hai detto queste cose?” chiesero.
Ero di cattivo umore quel giorno. Il viaggio è stato lungo, e i bambini sul treno facevano troppo rumore. D. è un mio caro amico, e stava solo cercando di tirarmi su di morale. Stava solo scherzando.”
“I tuoi genitori ti hanno dato consigli su cosa fare in Cina?”
“Mi hanno detto di stare attenta e di non andare fuori tardi,
” rispose con sarcasmo.

Nel frattempo la poliziotta era arrivata, e con lei era venuta anche la guida turistica tibetana che aveva accompagnato L. in giro per Lhasa. La donna era giovane e carina, anche lei era vestita in semplici abiti borghesi. Il suo lavoro non era quella di perquisire L., ma solo di redigere una deposizione che riassumesse il contenuto dell’interrogatorio. Nel vedere la sua guida tibetana, che era stata così gentile e premurosa nei suoi confronti, L. si sentì in colpa. Sapeva che lui sarebbe stato considerato responsabile di ciò che era accaduto. L. aveva sentito dire che mentre gli stranieri che si cacciano nei guai vengono deportati, sono le guide turistiche locali a venir punite severamente. Per cercare di aiutarlo, L. fece un’autocritica in stile comunista. “Da quando sono venuta in Tibet mi sono resa conto che i media si sbagliano e distorcono la realtà per fare profitto. Adesso ho capito che le cose vanno bene e la gente è felice.” I due poliziotti annuirono compiaciuti. L. dovette ripetere la sua deposizione dal principio, enumerando tutti i posti dove era stata durante la sua permanenza a Lhasa. La poliziotta redasse la versione finale della deposizione, dieci pagine in tutto. L. dovette firmarla e apporre le proprie impronte digitali su quasi ogni singolo paragrafo di ciascuna pagina. Nell’ultima pagina le dissero di scrivere una dichiarazione, “Garantisco che tutto ciò che ho detto corrisponde al vero. Prometto che in futuro mi asterrò dal diffondere voci.

Continua…

[Questo articolo è apparso in inglese per Nanfang]

*Aris Teon ha conseguito una laurea in lingue e culture straniere a Trieste e a Berlino, ha preso la fatidica decisione di iniziare una nuova avventura nell’Estremo Oriente. Ha vissuto a Taiwan e Hong Kong per tre anni, a volte frustrato e confuso, ma sempre pieno di curiosità ed entusiasmo. Sul suo blog  ‘www.my-new-life-in-asia.blogspot.com’ scrive delle sue esperienze e osservazioni. I suoi articoli appaiono regolarmente su ‘The Nanfang’. Ha scritto per ‘L’Indro’ e ‘East Magazine’.