La notizia ha fatto il giro della rete e dei maggiori organi di informazione internazionali nelle scorse quarantotto ore, le autorità mediche cinesi avrebbero dichiarato, secondo il «Guardian», che un farmaco avrebbe aiutato alcune persone infette dal Covid 19 a guarire. Naturalmente bisogna andare con i piedi di piombo su questo tipo di notizie, evitando di propagare false speranze, anche visto che l’Avigan, questo il nome della medicina, è stato testato solo su un certo numero di persone in Cina, e che esistono, a dire degli esperti, degli effetti collaterali. Senza contare poi che, secondo quanto riportato dal quotidiano giapponese «Mainichi Shinbun» come commento alle dichiarazioni cinesi, il farmaco non «funzionerebbe» nei casi più gravi.
L’AVIGAN, conosciuto e venduto anche con il nome di Favipiravir, ci permette però di raccontare una storia abbastanza interessante, singolare ma allo stesso tempo paradigmatica dello sviluppo aziendale ma anche artistico dell’arcipelago negli ultimi cent’anni. La medicina infatti è stata prodotta e lanciata sul mercato nipponico nel 2014, come rimedio anti influenzale dalla Fujifilm Toyama Chemical, una succursale della grande azienda nipponica fondata nel 1934. Se nei primi anni dopo la sua creazione le pellicole cinematografiche sono state il principale prodotto della Fujifilm, anche perché spinta dal governo giapponese che vedeva nel cinema un ottimo mezzo di propaganda e di mobilitazione, nel dopoguerra le cose si sono diversificate sempre di più. Prima con pellicole per macchine fotografiche, forse il prodotto con cui il marchio si identifica di più è che ha più dato lustro alla compagnia, ma successivamente anche con lastre per uso industriale, videocassette per uso televisivo e, nel 1965, un formato cinematografico in 8mm per uso amatoriale. Uscito praticamente nello stesso periodo della più famosa Super 8 della Kodak, la Single 8 della Fujifilm, benché abbia goduto di una certa popolarità in patria, è un formato che non è riuscito a sfondare a livello internazionale.
NEGLI anni ’70 continua lo sviluppo di pellicole per macchine fotografiche, ma la Fujifilm prova a diversificare i suoi prodotti e intraprende anche la produzione di componenti per macchine che misurano la pressione arteriosa. Abbastanza sconosciuta, ma per questo ancor più affascinante è la creazione di un prodotto che si è trovato a metà strada, da un punto di vista temporale ma anche quello tecnologico, tra i filmini amatoriali e le videocassette. Si tratta di riduzioni in 8mm, di solito della durata di pochi minuti, di famosi film, sia giapponesi che francesi, americani o italiani, accompagnate da audiocassette da far andare in contemporanea con l’immagine. Uscito fra gli anni ’70 e gli ’80, e co-prodotto con la Toei, è una sorta di fossile tecnologico ora ricercato solo da collezionisti che venne spazzato via, come si diceva, dalla grande onda delle videocassette e dei noleggi. Se gli anni ’80 sono il periodo in cui la Fujifilm immette sul mercato la prima macchina fotografica usa e getta, anche dopo il successo per aver ottenuto la sponsorizzazione dei Giochi Olimpici di Los Angeles del 1984, sono anche gli anni in cui continua l’espansione nell’ambito dei macchinari per uso medico.
I primissimi anni duemila sanciscono infine il declino della pellicola, sia fotografica che cinematografica (la produzione di quest’ultima verrà di fatto interrotta nel 2013) e la compagnia giapponese decide che è il momento di voltare pagina e di diversificarsi intraprendendo altre strade. Produzione di materiale per la realizzazione di schermi per computer e tv, macchine fotografiche digitali, ma anche, usando la conoscenza e la tecnologia accumulata in decenni di esperienza per la realizzazione di pellicole, cosmetici e appunto prodotti farmaceutici.
Di Matteo Boscarol
[Pubblicato su il manifesto]